Le parole che mancano in difesa delle ragazze di Teheran e Kabul

Le parole che mancano in difesa delle ragazze di Teheran e Kabul

Le stanno spezzando. Una per una, giorno dopo giorno, per mano di carnefici impuniti e con ogni evidenza impunibili, visto che la strage metodica e parallela delle giovani ribelli di Teheran e Kabul va avanti nel silenzio della parte «buona» del mondo. Per «ottime» ragioni di geopolitica o di affari, il consesso delle nazioni democratiche si limita a manifestare preoccupazione, disappunto, più qualche ipocrita quanto flebile allarme.

Si fa persino fatica a reggere le sommarie descrizioni di quello che centinaia di ragazze in Iran come in Afghanistan stanno subendo sui loro corpi, la devastazione che le porta a morti atroci, mascherate senza vergogna da incidenti, malori improbabili e improvvisi, con la minaccia ai familiari di sostenere la menzogna, pena la ripetizione del supplizio sulla pelle viva di altre figlie, mogli, madri, nonne, donne. È vero che ci sono anche tanti maschi, puniti con identica crudeltà per aver sostenuto l’accenno di ribellione che le loro amiche, compagne, vicine di casa,
parenti, conoscenti o sconosciute, hanno avuto il coraggio esasperato di tentare. Onore a loro, come a quel professore universitario di Kabul che ha strappato in diretta tv tutti i suoi diplomi perché «se mia sorella non può studiare, io non posso accettare di continuare ad educare». Se gli va bene, verrà «rieducato» come i giocatori della nazionale di calcio iraniana che agli ultimi Mondiali in Qatar si erano rifiutati di cantare l’inno nazionale, restando a bocca chiusa.

Ma per una volta nella Storia la ribalta non è degli uomini. Di fronte all’omicidio brutale di Mahsa Amini, 22 anni, massacrata dalla Polizia Morale perché sorpresa a Teheran con il velo che lasciava intravedere qualche ciocca di capelli (16 settembre 2022); di fronte al divieto per le giovani afghane di frequentare anche l’università (20 dicembre 2022), penultima privazione in ordine di tempo, visto che l’ultima è il divieto alle società di telefonia di vendere carte Sim a persone di sesso femminile; di fronte a queste ulteriori gocce di umiliazione, sono proprio gli esseri umani di sesso femminile ad aver preso la piazza e la scena contro la segregazione a cui sono sottoposte. Vanno a manifestare il loro «ora basta», consapevoli di quello che le attende, lasciando biglietti di probabile congedo («non so se tornerò da voi ma so che non posso non andare»), sfidando a mani nude e capo scoperto milizie con turbanti e bastoni che somigliano ai kapò dei Lager.

Una rivoluzione contro l’apartheid di genere, nelle dittature teocratiche dei talebani e degli ayatollah, a cui manca un Mandela che la rappresenti e che sia in grado di mobilitare un consenso fuori dalle mura di questi Stati prigione. Ma Mandela era un maschio, e questo dato di natura fa già da solo tutta la differenza. Essere donna non è un titolo di demerito in sé ma di fatto coincide, ovunque e variamente, a una condizione a vari gradi svantaggiata. In molte parti del pianeta, e l’elenco dei Paesi coinvolti è sterminato, questo svantaggio diventa sopruso, prevaricazione, privazione dei diritti primari, riduzione in uno stato di subalternità che confina con la schiavitù e spesso schiavitù diventa. Donna è meno, in genere poco, spesso niente, a parte la funzione esclusiva di incubatrice stabilita da leggi biologiche immutabili.

La doppia e inumana repressione scattata quasi in contemporanea in Iran e Afghanistan capita in un contesto paradossale, dove per esempio in Europa sono proprio delle donne a capo delle principali istituzioni: Ursula von der Leyen (Commissione), Roberta Metsola (Parlamento), Christine Lagarde (Banca centrale). A parte Giorgia Meloni, prima presidentessa del governo italiano, che ha appena definito «inaccettabile» la scelta di sangue voluta da Teheran, da nessuna di loro risulta sia ancora venuta una parola forte a conforto delle giovani sorelle che rischiano, e a centinaia perdono, la vita pur di rivendicare il più elementare dei bisogni: smettere di essere trattate da esseri inferiori.

La fine di questi inattesi inverni di lotta e di speranze è prevedibile e fosca. La disparità delle forze in campo, il totale abbandono internazionale che isola le giovani combattenti, abbandono che riguarda anche i loro coetanei che abitano Paesi più civili, la presa d’atto di essere avanguardie senza alcun esercito che si ingrossi alle loro spalle, tutto questo renderà ancora più feroci gli aguzzini e aumenterà nelle eroiche manifestanti quelle paure e quelle angosce che sono l’anticamera della resa. Non a caso, dopo più di 100 giorni di disorientamento, il presidente iraniano Ebrahim Raisi ha improvvisamente ritrovato la voce: «Non mostreremo misericordia al nemico». E quando arresteranno Khadim al-Sharia, 25 anni, la campionessa di scacchi che è andata in Kazakistan per i campionati del mondo e si è mostrata in pubblico coi capelli sciolti e senza hijab, quando storceranno il suo sorriso in una smorfia, perché questo succederà, allora forse verrà riconvocato un ambasciatore, come ha già fatto il nostro ministro Tajani, per dire che così non si fa.

Il Corriere della Sera

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