L’altra metà

L’altra metà

Le presidenziali francesi tolgono a Putin l’ultima speranza si spaccare l’Unione europea. Può interpretare il ruolo del carnefice, ma non vincere. Nella stessa domenica si è votato in Slovenia e un governante comunque europeo, comunque interno alle scelte europee, ma vicino all’Ungheria di Orban, ha perso, a beneficio di uno sfidante non solo europeo, ma anche europeista. Continueremo a discutere e a dividerci, come è bene che sia, su tante cose, ma rispetto all’attacco all’ordine internazionale quel che si oppone a Putin è un muro sul quale è destinato a schiantarsi.

Ma l’Occidente non è il mondo. Solo una sua parte. Quella più libera, più ricca e in cui si vive meglio. Forse anche quella in cui ci si lamenta di più, ma questo è un derivato del volere stare sempre meglio e dell’avere opinioni diverse su quel che ciò significa. La diplomazia occidentale ha fatto di tutto, dopo la fine dell’Urss, per tenere tutti dentro l’ordine internazionale. C’è chi ha criticato l’ingresso della Cina nel WTO, l’organizzazione del commercio mondiale, chi ha considerato azzardata l’amicizia fra Russia e Nato. Paradossalmente sono gli stessi che ora chiedono di puntare tutto sui negoziati. Quelli sono successi della nostra diplomazia. E se oggi non si è ancora riusciti a trattare seriamente è solo perché Putin vuole la resa e non un accordo.

L’Onu è quello che è, con equilibri figli della seconda guerra mondiale, bloccata dal veto russo. Si lavora a modificarne le inefficienze, ma quando si è trattato di condannare l’invasione l’Assemblea ha votato con 141 Paesi a favore della condanna e solo 5 contro, il club delle canaglie: Russia, Bielorussia, Eritrea, Corea del Nord e Siria. Però, osservano taluni, si sono astenute la Cina e l’India. Sommando le popolazioni anziché i Paesi di ottiene, secondo loro (fra i quali Romano Prodi), che circa la metà non ha condannato la Russia. Calcolo sbagliato, a parte che si ottiene anche la condanna da parte della metà. E non è poco.

Per trovare una via d’uscita servono a nulla le prediche, contano i rapporti di forza. Questi sono dati dalle armi, dalle economie e dalla storia. Attribuire alla popolazione cinese un’approvazione data dall’astensione è azzardato. Intanto ricorda il principio “cuius regio, eius religio”, contenuto nella pace di Augusta, 1555, secondo cui il suddito non solo si beccava il regnante, ma credeva in quello che diceva di credere quello. Nelle democrazie si può sostenere che i governi rispecchino gli umori degli elettori, fuori da quelle no. Ma, a parte questo, c’è la storia: la Cina non è mai andata d’accordo con la Russia, neanche quando erano due regimi comunisti; l’India e la Cina hanno in corso conflitti incrostati da anni. Considerare questi Paesi un blocco è un abbaglio. Ciascuno sta provando a trarre il massimo beneficio possibile. Sanno bene che rompere l’ordine internazionale è per loro un danno, ma altrettanto bene sanno che, al momento, è un affare nostro, degli occidentali, sicché cercano il modo di profittarne e certo non sono affranti dai danni che ne riceviamo.

E qui contano le economie. In Cina il nazionalismo è un sentimento più comburente che in Russia, ma il mercato che ha fatto crescere la loro ricchezza siamo noi, mica la Russia o l’India. L’equilibrio nel quale crescono è il nostro. L’India è governata da un nazionalista, ma ancora due mesi prima dell’invasione dell’Ucraina si spiegava al Paese povero e con il più basso tasso di inquinamento pro capite che dovevano piantarla d’inquinare. Però è anche vero che la Cina ha strozzato i rapporti economici con la Russia e l’India non s’è rimangiata gli impegni presi. Negoziare significa riprendere le fila di quei dialoghi, riconoscendo influenze regionali e trasferendo tecnologia non inquinante. E guardano l’Africa non solo come la terra da cui trarre materie prime. Su queste cose si negozia, sapendo che la geopolitica non dimentica la morale, ma neanche campa di quella. Putin va solo piegato.

La Ragione

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