La Thatcher modello antipopulista

La Thatcher modello antipopulista

Il 3 maggio di 40 anni fa, nel 1979, si tennero le elezioni più gravide di conseguenze della seconda metà del XX secolo. Infatti, in Gran Bretagna il primo ministro laburista in carica, Jim Callaghan, venne sonoramente sconfitto dal partito Conservatore, per la prima volta guidato da una donna, la signora Margaret Thatcher.

Il quinquennio 1974-1979 era stato particolarmente difficile per il Regno Unito, in pieno declino non solo economico ma sociale. Callaghan si era addirittura trovato nel 1976 nell’umiliante posizione di dover chiedere, lui, premier di quella che fino a mezzo secolo prima era la maggior potenza mondiale, un prestito al Fondo Monetario Internazionale per evitare una crisi finanziaria. L’inverno del 1978-79, poi, passò alla storia come «the winter of discontent» con il Paese caduto ostaggio di sindacati estremisti che grazie a scioperi selvaggi strappavano aumenti salariali esagerati che contribuivano a far schizzare l’inflazione. La produzione ristagnava, la disoccupazione era molto alta e il povero Callaghan dimostrò di essere completamente fuori sintonia con l’opinione pubblica quando, di ritorno da un vertice internazionale ai Caraibi, ai giornalisti allarmati che gli chiedevano come intendesse affrontare la crisi rispose «Crisis? What Crisis?» .

Sia come sia, dopo un voto di sfiducia al governo, il Paese andò anticipatamente alle urne per l’appunto il 3 maggio. Con un travaso di voti fino a quel momento mai verificatosi, i Tory vinsero le elezioni e la signora Thatcher diventò primo ministro, carica che mantenne fino a novembre del 1990 quando, in un periodo di grande impopolarità, dopo essere stata sfidata per la leadership del partito da Michael Heseltine, decise di dimettersi.

Perché la leadership della Lady di ferro (nomignolo affibbiatole dai sovietici) può essere considerata un momento di trasformazione della storia occidentale? In buona sostanza perché ha cambiato il paradigma culturale di riferimento della politica dei governi, inaugurando quei 40 anni di «liberismo selvaggio» di cui ancor oggi –in piena era protezionista ed interventista- in molti si lamentano. Figlia di un negoziante metodista(la petite épicière, la piccola droghiera, la chiamava l’aristocratico Valery Giscard d’Estaing), Maggie crebbe attenendosi ad una severa etica di responsabilità individuale e duro lavoro. Frequentò Oxford grazie a una borsa di studio, si laureò in chimica e divenne successivamente avvocato. Fu fin da giovane un’avida lettrice del filosofo-economista Friedrich von Hayek, premio Nobel per l’economia nel 1974, ed era attratta dalla vita politica con l’intento di cambiare il mondo, non di adattarsi ad esso.

Alla fine degli anni ’70 quello che era stato per anni il «consenso keynesiano» si stava sgretolando, ma nessun politico liberale o conservatore aveva avuto il coraggio di contrapporgli una visione completamente alternativa. Fu la Thatcher ad assumersi quest’onere: nei suoi discorsi la libertà economica, l’eccessiva regolamentazione, i fallimenti del socialismo democratico, l’onerosità della tassazione, il diritto a godere dei frutti del proprio lavoro, il potere liberatorio del mercato («un manufatto, che sia costruito da mani bianche, brune, nere o gialle, sarà comprato ovunque, se prezzo e qualità sono quelli giusti») erano temi costanti. Non mancavano anche riflessioni più prettamente filosofiche. La frase «non esiste la società ma solo gli individui che la compongono» le fu ritorta contro come indice di un crudele egoismo che negava ogni responsabilità sociale. In realtà la Iron Lady stava riassumendo uno dei pilastri dell’individualismo metodologico, quella corrente delle scienze sociali che non crede a concetti collettivi come «le masse», «la società», «i giovani» per spiegare i fenomeni sociali, perché è solo l’individuo che pensa e agisce. Peraltro, Maggie era anche contraria all’idea di colpa collettiva storica, la stessa che fa discutere oggi in America se si debbano dare riparazioni ai discendenti degli schiavi: «è una dottrina pericolosa che lascerebbe ben poche nazioni senza cicatrici».

Liberalizzazioni, privatizzazioni, contenimento della spesa pubblica e della tassazione nonché del potere dei sindacati, sono postulati dai quali, tutto sommato, in 40 anni non si è più tornati indietro, come le esperienze del Labour di Blair e Brown nonché di Clinton e Obama in America dimostrarono: maggiore redistribuzione ma all’interno di un vibrante sistema capitalistico. Questa rivoluzione culturale, che poi proseguì e si diffuse a partire dal 1981 con Reagan, è un lascito indelebile che va al di là dei molti successi economici e politici (si pensi alle Falkland e alla fine della Guerra fredda) conseguiti dai suoi governi così come degli inevitabili errori (la difesa di Pinochet, un antieuropeismo a volte stridente o la poll tax). La sua fede nella libertà oggi, in un mondo occidentale scombussolato da improbabili ritorni al sovranismo, al protezionismo o al socialismo, ci può far rimanere ottimisti quanto lo era lei: «quando la gente è libera di scegliere, sceglie la libertà». Grazie, signora Thatcher.

 

Alessandro De Nicola

La Stampa, pag. 25 – Lunedì 6 Maggio 2019

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