Incurabile

Incurabile

Ieri un tipo che non conosco mi ha scritto che sono malato. Non avevo ancora concepito una riga su Colleferro e sulla morte orribile di Willy, ma lui sapeva come la penso, come continuo a pensarla in forma secondo lui patologica. E, ammetto, ci ha preso. Penso che un assassino è tale soltanto dopo sentenza, altrimenti i processi non servono, andiamo a prenderli quegli assassini e finiamoli in piazza. Penso che la regola valga tanto più uno appare colpevole perché, se si cede all’eccezione, cede la giustizia. Penso che trovare la conferma a certezze già vaporosamente ferree nelle foto, nelle pettinature, nei bicipiti, nei tatuaggi, nell’attività sportiva sia l’allegro e spaventoso sprofondare nel conforto efferato del pregiudizio. Penso che nessuno debba essere definito mostro, mai, l’uomo è tale per le vette e gli abissi. Penso che inchiodare, come ho letto, le famiglie degli indagati a una frase che non si sa da dove venga («hanno solo ucciso un extracomunitario») è un atto di banalissima violenza che fa venire le vertigini. Penso che questa ormai classica, digitale, collettiva e spietata caccia alle bestie, come sono stati definiti i quattro indagati, è un linciaggio con tutti i comfort tecnologici, è brutalità sterilizzata, non richiede nemmeno un tumulto del cuore. Penso che invocare le punizioni più esemplari, più feroci, corrisponde a infiammare la giustizia di emotività, e quando la giustizia è emotiva è ingiusta, è vendetta. Penso che è davanti al peggiore dei mali che si deve avere una particolare cura del bene. Sono malato, gravemente malato, e attorno a me ci sono sempre più sani ma, stranamente, la bava alla bocca ce l’hanno loro.

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