Imprese, piccolo non è più bello

Imprese, piccolo non è più bello

Nel recente passato è stata opinione comune che il tessuto produttivo italiano, caratterizzato da ben200mila Pmi, garantisse al sistema produttivo nazionale una competitività maggiore rispetto agli altri Paesi Ue. Si riteneva che la flessibilità tipica di una impresa di dimensioni ridotte fosse indice della capacità di cogliere rapidamente ogni opportunità di business. Poi l’impatto di mercati sempre più aperti ha riscritto il novero delle caratteristiche vincenti per competere. Abbiamo assistito auna progressiva concentrazione in diversi settori, con i “giganti” internazionali capaci di dominare anche il mercato domestico; ne è un esempio l’industria del software. Alcuni campioni nazionali, tipicamente quelli con una specializzazione in un settore di nicchia, in alcuni casi hanno beneficiato dell’apertura dei mercati, e grazie all’export hanno assunto un ruolo internazionale; ne è un esempio la meccanica di precisione.

Ma come è cambiato il nostro tessuto produttivo? Nel 2020 le aziende italiane erano 4.253.279 (dati Istat) di cui il 95% era rappresentato dalle microimprese con meno di 10 addetti. Il rimanente 5% era composto in larghissima parte da poco più di 201mila Pmi. Quest’ultime rappresentavano però la parte più significativa del tessuto produttivo nazionale: circa il 77% del valore della produzione totale, il 76% della forza lavoro e più dell’85% del totale degli investimenti lordi in beni materiali. Dal 2016 il numero totale delle aziende si è ridotto di poco meno dell’1% e della stessa percentuale è calato il numero delle Pmi, in seno alle quali è avvenuta una divaricazione: le imprese più piccole (tra 10 e 49 addetti) hanno visto il segno negativo praticamente su tutti gli indicatori, mentre le aziende più grandi (quelle con più di 50 addetti) hanno registrato una crescita numerica e hanno guadagnato un peso maggiore sul tessuto produttivo nazionale.

Venendo aidati, la numerosità delle imprese tra i 10 e 49 addetti (che rappresentano l’87% delle Pmi) si è ridotta dell’1,6%, il valore della produzione è sceso del 9%, la forza lavoro è rimasta pressappoco invariata. Solo gli investimenti lordi in beni materiali mostrano una crescita del 2 per cento. Disegno opposto gli indicatori relativi al restante 13% delle Pmi, ovvero il cluster delle imprese con più di 50 addetti, il cui numero è aumentato del 5,3%, con la crescita del valore della produzione del 5%, un incremento a doppia cifra della forza lavoro pari al 12% e un aumento significativo degli investimenti lordi in beni materiali del +14 per cento. Attualmente il tessuto produttivo nazionale poggia in buona misura sulle circa 27mila imprese con più di 50 addetti, che costituiscono il 57% del valore della produzione nazionale (cresciuto nel quinquennio di osservazione di circa il 7%) e che concentrano più della metà della forza lavoro e il 69% degli investimenti lordi in beni materiali(cresciuto nel quinquennio di osservazione di quasi il 15%). Interessante notare come le aziende più grandi abbiano trainato la crescita nazionale, caratterizzandosi per un incremento significativo della forza lavoro e a doppia cifra degli investimenti lordi in beni materiali. I mercati caratterizzati da un forte competizione, o che sono in fase recessiva, tendono a favorire le aziende leader e ad allargare il distacco tra queste e tutte le altre. Le aziende più grandi rispondono meglio al nuovo contesto competitivo, mostrando una migliore capacità di affrontare mercati globalizzati e disruption improvvise, ed evidenziano una maggiore capacità di investire per far evolvere le competenze e affrontare la competizione nei propri mercati. In particolare, l’investimento in digitalizzazione può presentare ritorni più elevati, attraverso l’utilizzo della tecnologia oggi ampiamente disponibile, e consente, dunque, di ottenere una maggiore efficienza a parità di risorse impiegate.

 

Il Sole 24 Ore

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