Il Qatargate è un colpo all’italiana. Pregiudizio? Non tanto

Il Qatargate è un colpo all’italiana. Pregiudizio? Non tanto

La vicenda che ha sconvolto l’Europarlamento viene iscritta al nostro carattere nazionale: “The italian job”, intendendo che noi italiani siamo più inclini alla corruzione. L’espressione offende, certo. Ma prima o poi dovremo iniziare a domandarci per quale oscura ragione ce l’abbiano tutti con noi

 

Il cosiddetto “quatargate” che sta sconvolgendo l’Europarlamento si presta a diverse chiavi di lettura. La più facile ha a che fare con l’eclissi ufficiale del mitico primato morale della sinistra. Gli eredi del partito che per decenni si finanziò con i soldi di una potenza nemica e dittatoriale (l’Unione Sovietica), poi con i soldi dell’universo cooperativo emiliano, poi con i soldi di alcuni istituti di credito nazionali (“abbiamo una banca!”) e infine, da Buzzi a Soumahoro, con i soldi destinati all’assistenza dei migranti, ebbene, gli eredi di Enrico Berlinguer e i cantori della “questione morale” non sono migliori degli altri. Sono solo meglio organizzati e più ipocriti. Lettura sfiziosa, ma poco originale.

Più interessante, anche se più doloroso, provare a indagare le radici del fenomeno. Fenomeno che a Bruxelles viene iscritto addirittura al nostro carattere nazionale. “The italian job”, dicono. E lo dicono intendendo che noi italiani siamo più inclini di altri al sotterfugio e alla corruzione. Un pregiudizio? Mica tanto. È la conclusione cui giunsero un po’ tutti i viaggiatori europei che a partire dal Settecento attraversavano il Belpaese ammirandone le meraviglie artistiche ma deprecandone l’immoralità degli abitanti. È la conseguenza dell’aver inventato la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra e di averne fatto con indiscutibile successo prodotto da esportazione. È la conseguenza di quel “familismo amorale” che ci venne attribuito dal sociologo statunitense Edward C. Banfield negli anni Cinquanta. È la conseguenza, forse, della mancata riforma protestante e di troppe dominazioni straniere. È la logica che spinse le classi dirigenti italiane dei primi anni Novanta ad aderire a Maastricht per obbligarci, grazie al “vincolo esterno”, a quella virtù contabile che assai poco ci appartiene. Pregiudizi? Fino a un certo punto.

Qualche anno fa, due ricercatori della Columbia University e dell’Università della California passarono in rassegna le contravvenzioni per divieto di sosta inflitte ai diplomatici delle Nazioni Unite a New York. Poiché il personale dell’Onu gode dell’immunità, pagare le multe è faccenda che attiene all’educazione e al carattere personale. Ma educazione e carattere personale vantano anche una dimensione nazionale. Ebbene, nella classistica stilata dai due ricercatori americani i diplomatici italiani risultavano tra i più morosi del mondo. Per capirci, i nostri connazionali figuravano cento posizioni più in basso rispetto ai rappresentanti di nazioni considerate virtuose come Svezia e Norvegia…

“Italian job” è espressione che offende, certo. Ma prima o poi dovremo pure cominciare a domandarci per quale oscura ragione ce l’abbiano tutti con noi.

 

Huffington Post

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