Il libero commercio fa bene a tutti

Il libero commercio fa bene a tutti

“Nessuno ha mai visto un cane con un suo simile fare uno scambio deliberato e leale di un osso contro un altro osso. Nessuno ha mai visto un animale, coi suoi gesti o le sue grida naturali, far capire a un altro animale: “questo è mio, quello è tuo, io darei volentieri questo
in cambio di quello”.
Il celebre passaggio di Adam Smith ci ricorda che l’uomo è portato allo scambio con i propri simili. E, in effetti, “in una società incivilita egli ha bisogno in ogni momento della cooperazione e dell’assistenza di moltissima gente, mentre tutta la vita gli basta appena per assicurarsi l’amicizia di poche persone”. Il riferimento a “moltissima gente” è essenziale perché implica che lo scambio è tendenzialmente senza confini, mentre all’epoca gli Stati nazionali adottavano una politica mercantilista, per la quale il commercio era un gioco a somma zero. La scoperta degli illuministi scozzesi, Hume e Smith, consisteva proprio nella dimostrazione che il libero commercio tra le nazioni faceva stare meglio tutti, sia chi importava che chi esportava e colui il quale formulò con maggiore rigore questa teoria fu un seguace di Adam Smith, l’inglese David Ricardo, di cui lo scorso 11 settembre ricorreva il 200° anniversario della morte.

La disquisizione non è puramente teorica. Mentre negli anni 90 la comunità internazionale (e quella scientifica) aveva accettato questo principio, da un po’ di anni si assiste alle difficoltà della globalizzazione. Sempre più spesso i governi impongono restrizioni al commercio. Alla base ci sono motivi politici, come per le sanzioni nei confronti di Stati-canaglia o guerrafondai; il timore di trasferimento di tecnologie strategiche verso Paesi ostili (esportazioni europee e americane verso la Cina); la genuflessione verso lobby interne (il blocco dell’importazione di grano ucraino da parte della Polonia) o infine la reazione ai sussidi statali a favore di imprese esportatrici (ancora una volta l’Ue verso la Cina). Persino i provvedimenti più giustificabili comportano conseguenze negative per entrambe le parti.

Torniamo ai nostri filosofi ed economisti del XVIII e del XIX secolo. Ebbene, David Hume, filosofoscettico scozzese, aveva già demolito le credenze protezionistiche nei suoi saggi Of Commerce, Of theBalance of Trade e Of Jeaulosy of Trade. Scriveva infatti che “l’incremento delle ricchezze e del commercio di una qualunque nazione, piuttosto che causare un danno di solito favorisce i Paesi limitrofi nell’acquisto di ricchezze e di commerci” anche perché la libertà di scambio costituisce uno stimolo positivo e “un incoraggiamento” per l’economia degli Stati circostanti. “All’inizio la merce è importata dall’estero con nostro grande disappunto, perché pensiamo che essa ci privi della nostra moneta; in un secondo tempo le competenze stesse vengono gradualmente importate, a nostro evidente vantaggio”: il commercio come veicolo di diffusione della conoscenza. Se nel passato gli stranieri “non ci avessero istruito, noi ora
saremmo dei barbari”. Adam Smith, suo caro amico, lo spiegò con grande semplicità: “Per mezzo di vetrate, concimazioni e serre riscaldate si possono coltivare in Scozia ottime uve, e con esse si può fare anche dell’ottimo vino, con una spesa quasi trenta volte più alta di quella con cui si può far arrivare da Paesi stranieri un vino almeno altrettanto buono”. D’altronde “è una regola di condotta di ogni prudente capofamiglia quella di non cercare mai di fabbricare a casa ciò che costerebbe più far da soli che comprare”.

Sulle spalle dei due giganti si piazza David Ricardo, politico, uomo d’affari, economista che sviluppò la teoria del vantaggio comparativo. Nei suoi Principles of Political Economy and Taxation, il ragionamento è sviluppato in modo semplice: anche quando un Paese è più
efficiente di un altro in due produzioni, comunque gli conviene specializzarsi in una. Poniamo che il Portogallo produca 1 bottiglia di vino con 5 ore di lavoro e un chilo di pane con 10 ore. L’Inghilterra, invece, produce la stessa bottiglia in 3 ore e il chilo di pane in un’ora. Sembrerebbe che all’Inghilterra convenga fare tutto a casa. Invece, il costo del Portogallo
per produrre il vino, sebbene più alto che in Albione, è più basso rispetto al pane. Per ogni bottiglia prodotta, il Portogallo dà via 1⁄2 chilo di pane, mentre all’Inghilterra basta 1/3 di chilo. Quindi il Portogallo ha un vantaggio comparativo nel produrre il vino, mentre l’Inghilterra lo ha nel produrre il pane. Se Londra e Lisbona scambiano vino e pane 1 a 1, il Portogallo convertirà le 10 ore che gli ci vogliono per produrre il pane per fare 2 bottiglie di vino. Anche l’Inghilterra ci guadagna, perché per importare due bottiglie di vino dal Portogallo in cambio di due chili di pane, ci dovrà mettere due ore di lavoro, mentre per fare una bottiglia di vino ne impiega tre e quindi, con lo scambio immaginato, convertirà le 3 ore per sfornare 3 chili di pane e alla fine si troverà con una bottiglia in più (ne importa due) e un chilo di pane in più (gliene avanza uno). Ecco qui la teoria dei vantaggi comparativi spiegata senza complesse formule matematiche. Il mondo è diventato sempre più complicato ma la lezione di questi tre giganti si è dimostrata una delle più solide della teoria economica: ricordiamocelo.

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