Lo scorso maggio, la Commissione europea ha tagliato le stime di crescita per il 2025 al +0,9% per l’eurozona e al +1,1% per l’Europa a 27 membri. Si conferma, così, uno scenario di perdurante crescita flebile, prossima alla stagnazione. Parimenti, l’Eurostat certifica che la produzione industriale, dopo un avvio dell’anno in segno positivo, è tornata a contrarsi in aprile, del 2,4% nell’area euro e dell’1,8% nell’UE. Dal 2015 a oggi, la riduzione della produzione manifatturiera è di circa il 4%, con picchi del -10% in Germania. A tal riguardo, giovedì l’ISTAT ha diffuso le nuove rilevazioni per il nostro Paese, che segna una riduzione dello 0,9% su base annua e dell’1,2% da inizio anno, con un quadro che appare più tetro per alcuni settori – su tutti l’automotive, maglia nera con un crollo del 5,6% su base annua.
L’instabilità della congiuntura economica, aggravata dall’incertezza sul raggiungimento di un accordo sostenibile con gli Stati Uniti in tema di politiche tariffarie, imporrebbe misure orientate al pragmatismo e volte a sostenere la produzione e la competitività delle imprese europee. La paventata archiviazione di alcune norme contenute nel Green Deal, della cui presunta morte si è tanto parlato negli ultimi mesi, appariva finalizzata proprio ad anteporre le ragioni dell’economia a quelle di obiettivi climatici tra i più severi il mondo – considerando anche che l’Europa è il continente che meno inquina tra quelli sviluppati e l’unico tra questi ad aver ridotto le proprie emissioni di CO2 negli ultimi decenni.
A dispetto di una narrazione allarmista, il Green Deal non solo è vivo e vegeto, ma trae rinnovata linfa vitale dall’orientamento della nuova presidenza danese del Consiglio europeo, di chiaro stampo verde. D’altronde, la paventata revisione del blocco alle immatricolazioni di auto con motore endotermico nel 2035 è rimasta una mera dichiarazione d’intenti per rabbonire un settore che “sta sanguinando”, per citare il commissario europeo per il commercio Šefčovič. Per giunta, la nuova proposta della Commissione mira a inasprire ulteriormente i target climatici, con un’inauspicabile e irrealistica riduzione complessiva delle emissioni del 90% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2040. Tra gli oppositori della proposta, in attesa della votazione dell’Europarlamento, Francia, Repubblica Ceca e Italia, con il Ministro per gli affari europei Tommaso Foti che mette in guardia sul rischio di “deindustrializzazione dell’Europa”.
Tra i favorevoli, come anticipato, l’esecutivo danese, che ha in serbo altre brutte sorprese per imprese e consumatori. Di fatti, mentre il caro bollette galoppa e continua a erode il potere d’acquisto delle famiglie europee, da Copenaghen propongono una revisione – a rialzo – della Direttiva europea sulla tassazione dell’energia, auspicando un adeguamento dell’imposizione fiscale “in linea con le politiche energetiche e climatiche dell’Ue”, che “incoraggerà l’uso di fonti energetiche rinnovabili”. Un’operazione che difficilmente andrà in porto, necessitando del consenso unanime di tutti i membri del Consiglio, ma emblematica dell’indirizzo che la presidenza intende imprimere e della sua estraneità all’attuale congiuntura economica. Un brusco passo indietro rispetto al pragmatismo della presidenza polacca appena terminata, rappresentata egregiamente dal monito lanciato dal primo ministro Donald Tusk, con cui avverte che le politiche ambientali dell’Unione contribuiscono in maniera decisiva al drastico aumento dei prezzi dell’energia.
Nel frattempo, anche le promesse della Commissione di ridurre il costo della burocrazia e l’impatto della sovrapproduzione legislativa sulle imprese europee sembrano, per ora, disattese. Così, il continente diviene sempre meno attrattivo per l’insediamento di startup e investimenti esteri diretti. Non a caso, secondo Junior Entrepreneurs Europe, la complessità burocratica è tra le principali cause di fallimento per le imprese guidate da giovani, con tantissimi imprenditori che rinunciano in partenza ad avviare un’attività.
Senza una drastica inversione di rotta e un radicale distanziamento dall’ideologismo vigente, il quadro è destinato a farsi ancor più tetro. Occorre tenere a mente, infatti, che l’obiettivo di lungo termine, sancito dalla Legge europea sul clima del 2021, è il raggiungimento della totale neutralità carbonica entro il 2050. Con oltre 1,4 miliardi di esseri umani nella sola Cina che contribuiscono addirittura per un terzo delle emissioni globali, contro un’UE che apporta a malapena un 7%, l’impatto del Green Deal sulla salvezza del pianeta è a dir poco trascurabile, ma quello sull’industria europea già sortisce effetti preoccupanti.