Il Csm e il manuale Cencelli

Il Csm e il manuale Cencelli

Il recente “caso Palamara” ha proiettato una luce sinistra sul Consiglio Superiore della Magistratura, sulla Associazione Nazionale Magistrati e sulla stessa Magistratura. Ovviamente, non entro nel merito di tali vicende, sulle quali sono in corso complessi procedimenti penali e delicate indagini disciplinari. Da quanto emerso sin qui – nella sua cruda oggettività – potrebbero trarsi spunti di carattere generale, in grado di avviare riforme serie. Ho, invece, l’impressione che, more solito, si tenda ad isolare l’untore e ad addossare tutte le responsabilità al malcapitato di turno.

Quando, nel 2010, iniziai il mio percorso quale componente “laico” del CSM mi ritrovai nella Quinta Commissione, il cuore pulsante del CSM, che si occupa degli incarichi direttivi e semidirettivi, sia dei pubblici ministeri che dei giudici.E qui un primo problema, perché le carriere degli uni e degli altri si incrociano, anche in quello che ho sempre fatto molta fatica a ritenere un “organo di autogoverno” o “governo autonomo della magistratura”, in contrasto con il sistema accusatorio e con l’art. 111 della Costituzione, in virtù della altisonante (ed ingannevole) “cultura della giurisdizione”.

Il secondo problema era che si tendeva a indicare i magistrati più bravi in base a qualità riconosciute, per ciascuno, dal rappresentante della corrente (più elegantemente, del “gruppo” del CSM) alla quale quel magistrato era iscritto. Ancora, spesso capitava che i vari posti per le medesime funzioni, pur se banditi in tempi diversi, finissero per essere decisi contemporaneamente, “a pacchetto”. Lo scopo dichiarato era quello di collocare nei posti giusti, sull’intero territorio nazionale, i migliori; la finalità sottesa, non ostensibile, era quella di mettere in pratica il manuale Cencelli.

Cosa fare, allora? A mio avviso, occorrerebbe innanzitutto impedire che le correnti, da libere formazioni di pensiero e da organismi eminentemente “culturali”, diventino macchine elettorali per l’elezione al CSM, che è organo di rilevanza costituzionale, e dunque luoghi di gestione del potere e di carrierismo.

Io penserei ad un sistema misto, con un ampio sorteggio, e poi una votazione tra i sorteggiati. Quanto ai “laici”, eletti dal Parlamento in seduta comune, gradirei che essi fossero scelti tra professori ordinari in materie giuridiche e avvocati, ma si escludesse la possibilità di “pescare” tra parlamentari, ex parlamentari (ad esempio, sino alla precedente legislatura), e – più in generale – tra rappresentanti delle diverse istituzioni (consiglieri regionali, sindaci, ecc.).

Poi, ma qui il discorso è più lungo e complesso, vorrei che dal processo accusatorio discendesse la separazione delle carriere tra giudici e p.m., con la avvertenza fondamentale che si escludesse con nettezza che i secondi possano dipendere dall’esecutivo. Di qui, ovviamente, la presenza di due diversi Consigli Superiori della Magistratura: uno per i giudici ed uno per i p.m.

Naturalmente, il tema della riforma della giustizia è più ampio di quanto ho avuto modo di esporre in questa sede e richiederebbe riflessioni maggiormente tecniche. Ma credo che, se si affrontassero i punti sopra indicati e le questioni, diverse ma connesse, delle c.d. porte girevoli (magistrati che entrano in politica e poi tornano a fare i magistrati) e della presenza di un numero troppo elevato di “fuori ruolo” (magistrati autorizzati dal CSM a occuparsi di altro, rispetto alle questioni di giustizia), l’immagine della magistratura ne uscirebbe migliorata. Ed in tempi come questi, non mi sembra sia poco.

 

Articolo pubblicato su Il Foglio

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