Federico Fubini: Serve un cambio di passo sui fondi europei

Federico Fubini: Serve un cambio di passo sui fondi europei

Sergio Mattarella ha mandato ieri al Forum Arnbrosetti di Cernobbio un messaggio carico di significato. «La crisi obbliga a fare un ricorso massiccio al debito e non dobbiamo compromettere con scelte errate il futuro delle nuove generazioni», ha detto il presidente della Repubblica.

Esse «guarderanno come sono state amministrate le risorse. In caso di inattività o scarsa azione, si chiederanno perché generazioni che hanno avuto condizioni così propizie non siano riuscite a realizzare infrastrutture essenziali e riforme strutturali, necessarie all’efficienza del sistema sociale ed economico, accrescendo solo la massa del debito». Non si poteva essere più chiari. È appena il caso di ricordare che l’Italia nei prossimi anni ha l’opportunità di spendere oltre 300 miliardi di euro messi a disposizione dalla Ue.

Oltre duecento arriveranno dal Recovery Fund, 28 dal fondo Sure per il sostegno ai lavoratori, 36 per la spesa sanitaria dal Meccanismo europeo di stabilità (se li vogliamo) e poi ci saranno i fondi europei tradizionali, sui quali dal 2021 l’Italia riceverà più di quanto sia chiamata a contribuire. Questo è anche un risultato del governo e della sua ritrovata credibilità in Europa: sarebbe stato impossibile se il Paese fosse stato retto dalla coalizione euroscettica al potere fino a 13 mesi fa. Un terzo dei fondi saranno trasferimenti di bilancio, il resto prestiti a condizioni di favore e il totale vale il 20% del Prodotto interno lordo del 2020. Per dare un’idea, il Piano Marshall fra il 1948 e 1952 valse nel complesso l’11,5% del Pil italiano dell’epoca e cambiò il Paese.

In realtà Barry Eichengreen e Brad DeLong dell’Università della California a Berkeley hanno dimostrato che ciò che davvero trasformò l’Italia e il resto d’Europa, settant’anni fa, non fu la pura e semplice forza di fuoco finanziaria. Furono le condizioni che gli americani posero agli aiuti: i Paesi potevano beneficiarne solo se abbandonavano i modelli corporativi a economia mista degli anni ‘30, per trasformarsi in sistemi di mercato. Il Piano Marshall fu una svolta per l’Italia perché la spinse a modernizzare (almeno in parte) le sue istituzioni economiche.

Se questa è la lezione del passato, non resta che chiedersi se ce la ricordiamo. Ma rispondere oggi è impossibile. Sono troppi gli aspetti che restano ancora da chiarire, quelli sui quali non sono state date spiegazioni. Quasi niente è dato sapere dei progetti e delle priorità, al di là dei titoli. Si sa solo che al ministro Enzo Amendola è stato chiesto di sollecitare piani dai ministeri e ne sono arrivati più di seicento: quasi tutti vecchi, alcuni dei quali già finanziati con fondi nazionali. Non sarà facile dar loro coerenza. Non sarebbe stato meglio partire indicando dal centro poche direttrici precise magari già in giugno o in luglio, quando l’accordo europeo era già all’orizzonte? In Spagna per esempio i lavori del Recovery Plan sono partiti con una chiamata del governo a tutte le grandi imprese — private e pubbliche — per chiedere loro quali potrebbero essere i progetti digitali di maggiore impatto per la crescita.

Né è molto chiaro che forma prenderanno le riforme che si devono accompagnare al Recovery Plan italiano. Secondo le condizioni indicate nell’accordo di luglio a Bruxelles, esse devono riguardare la giustizia civile e l’efficienza dell’amministrazione. Dovrebbero entrare nel progetto da inviare alla Commissione europea tra poco più di un mese, ma di questi argomenti nel mondo politico e nel Paese quasi non si parla. La legge delega sulla riforma della giustizia civile giace in Parlamento da tempo, per esempio. Infine si pone una questione di metodo. Il compito di preparare il Recovery Plan è affidato al ministro Enzo Amendola, una delle figure più capaci e dinamiche del governo. Ma Amendola, come ministro degli Affari europei, non ha direttamente a propria disposizione una struttura amministrativa con competenze specifiche e di dimensioni sufficienti a sostenerlo in questo lavoro. Anche questo è un nodo che andrà sciolto, nelle prossime settimane.

Ieri al Forum Ambrosetti è stato Mattarella a sottolineare il ruolo importante che l’Italia ha avuto nel tessere le alleanze per arrivare all’accordo europeo di luglio. Ora però serve un cambio di passo nel governo, se vogliamo farci trovare pronti a questa occasione che — ha ricordato il capo dello Stato —non possiamo permetterci di sprecare.

 

Federico Fubini

Corriere della Sera, 6/09/2020

 

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