Domenico Quirico: “A nove anni dal mio naufragio l’Europa resta un sogno che uccide”

Domenico Quirico: “A nove anni dal mio naufragio l’Europa resta un sogno che uccide”

Ecco: il problema è che non ci sono strappi nella memoria. Nove anni fa, nove anni! Era marzo mi sono imbarcato con i migranti, ho attraversato il mare, siamo affondati verso Lampedusa, ci hanno salvati. Per nove anni, ogni anno, mi son detto: tutto questo diventerà ricordo, storia non più cronaca. La rete della memoria, per fortuna, si bucherà e certe cose scompariranno o prenderanno una luce sbagliata, di maniera, sentimentale come accade per tutti i frammenti di racconto con cui abbiamo imbastito la vita. Perché i migranti o almeno quei migranti, disperati, votati al rischio della vita, non ci saranno più. Non devono esserci più. È impossibile che il problema non venga risolto grazie alla immensità dei mezzi di cui disponiamo, alla coscienza del nostro dovere di mondo ricco, della fortuna di esser democrazia che impone, soprattutto a noi, regole e pietà.

Dovrò faticare, mi illudevo, per richiamare alla mente la miseria e la noia assoluta dei luoghi da cui si partiva, luoghi da cui si può soltanto fuggire, le imbarcazioni minuscole e marce, e sul ponte dove si sta accucciati, immobili, il silenzio; sì, è di un genere straordinario, un silenzio che si avvicina all’Assoluto tanto che le orecchie ne ronzano e ci si chiede se alla lunga lo sopporterai. E ancora il motore esausto che ogni tanto si ferma come un cuore, la tempesta che esita in un cielo bianco, la luce notturna durante il naufragio come se la vita trattenesse il respiro, come non l’ho vista mai più, come se quella vera fosse scomparsa e il suo posto fosse stato preso da una luce morta, da un chiarore da catastrofe.

Ogni anno l’ho pensato. E invece guardo leggo ascolto quello che accade, oggi, ora, in quel mare e la memoria mi inchioda al presente: naufragi, l’isola che straripa di migranti salvati, le imprecazioni xenofobe. Potrei dopo nove anni andare in Tunisia e ripetere lo stesso viaggio: cercare il passeur come allora, pagare mille euro (oggi la tariffa per morire è 5500 dinari tunisini), imbarcarmi su qualche spiaggia dove tutti fanno finta di non vedere, sbarcare se il mare è favorevole, «hamdullah», allo stesso porto di Lampedusa. Sulla barca ancora tunisini: non ci saranno soltanto ragazzi ma donne e bambini, la migrazione non è più rito di passaggio, si è fatta disperazione di massa. Come se la Storia si fosse interrotta per incantesimo dalle due parti del mare, non ci fossero accumulate rivoluzioni trasformazioni promesse speranze illusioni.

Una novità: stavolta a Lampedusa troverei sul molo una folla esasperata, che dice basta non vogliamo più migranti. Perché la novità è la pandemia, la paura degli untori. Galleggiano tra yatch incredibili navi lazzaretto. Nove anni fa i pescatori uscivano in mare per salvare i migranti, nessuno urlava rabbia e esasperazione, qualche «candide» parlava di proporre quei pazienti, civili isolani per il premio Nobel. Nove anni fa ci salvarono le pazienti silenziose unità della guardia costiera. Oggi provvede un vascello-spot di un artista astuto che fa navigare la propria «opera d’arte».

Nove anni inutili: se quel viaggio si può ripetere in questo sfiancato 2020 vuol dire che nulla è stato fatto, che abbiamo sbagliato per nove anni. La risposta alla migrazione dal punto di vista politico sociale umano è un nostro fallimento. La storia, questa immensa storia di fantasmi. E di un mare pieno di morti.

I migranti. Le barche che bruciano, che affondano e gli schiavi confinati nei campi libici sotto gli occhi delle diplomazie. Della migrazione non si può sbarazzare scrivendo qualche riga più o meno commossa sulla pagina di un giornale. Dovrebbe essere come la cenere con cui cospargere tutto quello che tocchiamo. La verità è che non abbiamo più cuore e che tutto questo orrore lo sopportiamo benissimo con una pazienza esemplare. La politica europea e nostra, riformista o sovranista, destra o sinistra è stata sorda cieca ipocrita, idiota e cattiva. Nessuno di questi aggettivi è immeritato. L’hanno imbandita geni che si credono repressi, chiacchieroni impazienti di abusare della parola, parvenu che si illudono sulla loro nullità, ipocriti desiderosi di vendersi per crescere in onori e consenso.

Restano sempre loro che partono da una terra povera e sfatta, gli «harrag» si chiamano sempre così, quelli che scavalcano le frontiere. La disoccupazione i lavori pagati sei euro al giorno, venti dinari, e dopo aver comprato le sigarette (sfuse come da noi negli anni Cinquanta) e un caffè che cosa ti resta? O riesco o muoio, le stesse parole di nove anni fa. Le periferie di Tunisi interminabili i caffè fetidi dove trovi quelli a cui paghi cinquemila dinari per morire in mare, il disordine la polvere i manifesti di un consumismo impossibile che divorano i muri, il calore. E sguardi: magnifici spesso divoratori. Non ho mai incrociato su quella barca uno sguardo senza anima, giovane o vecchio. Ancora le barche dove ci si guarda come bestie timide, senza dire mai nulla. Il firmamento che stagna immenso sul mare che molti vedono per la prima volta. Oggi come nove anni fa.

E dopo le case immerse nell’oscurità del dolore di coloro che sono affogati o scomparsi. I padri che raccontano e l’ultimo messaggio, è lo stesso che mi mostrarono nove anni fa: padre, ti chiedo perdono. Le parole messe una dopo l’altra come se si arasse la terra. L’Europa è un sogno che uccide la Tunisia. E lo sanno ora come allora: da voi il paradiso non c’è lo sanno i nostri figli che è dura in Italia in Francia ovunque. Ma c’è quella parola che spiega, sempre: disgusto, di vedere il loro Paese affondare senza offrire loro alcuna possibilità. Questo mondo, l’Africa, la migrazione è un continuo passaggio di sofferenze. Ma la sofferenza non è nulla: l’ingiustizia, l’insulto è che gran parte di essa passa inavvertita.

A pensarci, a questi anni perduti, provo l’impulso di urlare. Non c’è stato nessuno anche quelli che proclamavano di compatire i migranti che abbia dato loro davvero una mano, che abbia indicato la strada che era quella dei diritti. Hanno dovuto fare tutto loro, morire sopravvivere, trovare una sistemazione, svecchiarsi loro che erano vecchi di millenni, creare ricchezza restando poveri, portare fermento in questo mondo decrepito. Tutto è uscito dalla loro pelle. Portiamo la colpa anche per quelli che qui si sono perduti, hanno assorbito i nostri vizi, assomigliano ora davvero al ritratto falso che gli xenofobi gli gettano addosso.

Abbiamo sbagliato anche noi, i narratori, intendo quelli che della migrazione non si sono limitati a fare un problema sociologico o politico, interviste frettolose su un molo o in un centro di accoglienza. Se il dovere è quello di informare, la notizia non deve rimanere mero documento, ma a trasmettere anche con persuasione emotiva il senso di una situazione umana. È lì che abbiamo fallito.

 

Domenico Quirico

La Stampa, 4/09/20

 

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