Daniele Manca: L’«ottima imposta» di Einaudi. La lezione (ignorata) su tasse e fisco

Daniele Manca: L’«ottima imposta» di Einaudi. La lezione (ignorata) su tasse e fisco

Si torna ancora una volta a parlare di riforma fiscale. Giusto, ma è possibile pretendere un po’ di chiarezza? Iniziando dal fatto che associarla al Recovery Fund dell’Europa è un errore. Non è possibile farla con quelle risorse. Ormai questo principio dovrebbe essere chiaro. A meno che non si intenda usare per intervenire sulle tasse fondi che originariamente erano previsti per altre partite ma che ora potrebbero essere finanziate dall’Unione. Già questo sarebbe un elemento di trasparenza, sia nei confronti dei cittadini, sia nei confronti di chi ci guarda da fuori e che riceve un’immagine di un’Italia pasticciona. Cosa che peraltro in grande misura non siamo affatto.

Quello che temiamo è che la confusione tra i vari piani in realtà nasconda un approccio poco meditato al fondamento delle politiche di bilancio di un Paese, vale a dire la tassazione e quindi il Fisco. E soprattutto che si celi dietro tutto questo gran parlare di imposte la tentazione di farne oggetto di campagna elettorale. A ogni partito la sua promessa, dal taglio del cuneo fiscale all’intervento sulle aliquote Iva a mirabolanti flat tax sperimentate in un paio di Paesi al mondo. Dimenticando che ogni intervento pesa sull’intero bilancio e sistema fiscale. E che proprio l’agire per singoli comparti, singole misure, ha portato a quella giungla inestricabile che rende il Fisco italiano una ragnatela ingiusta e incomprensibile. È dietro agli infiniti cavilli, il gioco perverso di detrazioni e deduzioni che scompaiono quasi 30 milioni di italiani che non versano un euro di tasse.

Infatti, stando alle puntuali radiografie condotte da Alberto Brambilla del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, su 60 milioni di cittadini solo 41 presentano una dichiarazione dei redditi e di questi solo 30 versano soldi al Fisco. Dati che ci spiegano anche quanto ci sia di distorto nel fatto che poco più del 12% di italiani paghi quasi il 58% dell’intera Irpef o che il 45% dei cittadini copra solo il 2,6% della stessa Irpef. Da qui la necessità di una riforma fiscale, si dirà. Certo. Ma proprio per questo affinché la riforma possa essere efficace deve essere sganciata dal dibattito del giorno per giorno. Si dovrebbe inizialmente dare ordine a quello che già c’è come chiede da tempo il direttore dell’Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, affinché si sappia da dove si parte. Dovremmo per una volta guardare alla nostra storia, cosa che ci piace fare quando si tratta di analizzare puntigliosamente le debolezze, meno quando potremmo imparare da noi stessi. Nel 1951 Ezio Vanoni, allora ministro delle Finanze, vara quella che viene considerata forse la più importante delle riforme fiscali del Paese. Riforma che introdusse la dichiarazione annuale e il modello semplificato, ma a partire proprio dal concetto che il sistema è una cosa unica.

Probabilmente in quegli anni sono ancora fresche le riflessioni e analisi di Luigi Einaudi su principi come l’«ottima imposta». «Ottima è quell’imposta data la quale, in un dato momento e luogo si ottiene il migliore soddisfacimento dei bisogni pubblici compatibilmente con la produzione del più abbondante flusso di reddito nazionale». O come ricorda Roberto Artoni sintetizzando l’Einaudi che «riprende Adam Smith, il requisito essenziale di ogni sistema tributario è che l’imposta deve essere certa nel tempo del pagamento, nel modo del pagamento e nell’ammontare dovuto, oltre, aggiungiamo noi, a indurre adeguati incentivi all’intraprendenza individuale».

Quanto dell’attuale Fisco può ritenersi adeguato a quei principi? Poco purtroppo. La rincorsa al consenso a tutti i costi ha fatto sì che nel corso degli ultimi anni il legislatore si sia rifugiato nella facile introduzione di bonus e agevolazioni a questo o a quel gruppo sociale. Quando si parla di riforma fiscale, invece, come di qualsiasi altra riforma, andrebbero chiarite le linee guida, i principi ispiratori, da esplicitare poi in progetti concreti che combinino risorse e tempi di attuazione. Si dovrebbe iniziare o perlomeno tentare di uscire dalla malattia italiana di una politica che si pone alla maniera hollywoodiana, forse, ma ben poco efficace e fattiva, di chi ogni giorno dichiara: sono Mr Wolf e risolvo problemi. Ma la politica ha un ben più difficile compito: garantire al Paese, un futuro sostenibile e prospero nel tempo. E questa la bussola che deve guidare le decisioni e la vera soluzione ai problemi di una comunità.

 

Daniele Manca

Corriere della Sera, 9/09/2020

 

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