“Nessuna opera pubblica può giammai essere realizzata senza che alcuno si arricchisca su di essa”: lo scrisse Massimo d’Azeglio in una lettera al nipote quando, nel 1852, lasciò la carica di Primo Ministro del Regno di Sardegna. Sarebbe di una qualche utilità trasferire tale banale evidenza ai pubblici ministeri milanesi.
Ad oggi, infatti, dall’inchiesta giudiziaria che ha posto in stallo il Comune di Milano, insidiando il futuro politico del sindaco Giuseppe Sala e la libertà personale dell’assessore alla Rigenerazione urbana Giancarlo Tancredi, non vi è traccia di dazioni di denaro. Nessuna bustarella, nessun conto all’estero, neanche un soggiorno pagato in uno straccio di albergo a cinque stelle. Nulla. Risulta però che alcuni professionisti si siano “arricchiti” grazie allo sviluppo urbanistico della città disposto dalla giunta. E allora? Dov’è il reato? Se lo chiede anche, ed è tutto dire, l’ex pm Antonio Di Pietro, che al Foglio ha dichiarato: “I magistrati pensano che una consulenza data a qualcuno sia in realtà uno scambio corruttivo, ma forse, più semplicemente, quella consulenza è invece una reale necessità. Perché per costruire i grattacieli di Milano non ti puoi affidare a un geometra di Canicattì”.
Benvenuti, direbbe il generale Vannacci, nel mondo a contrario. Un mondo in cui si dà per scontato che la magistratura si muova sulla base di teoremi piuttosto che di prove. Un mondo in cui, di conseguenza, la politica cerca riparo dove più si sente protetta: sotto le toghe dei medesimi magistrati.
Per spiegare lo strano caso di non aver ricevuto neanche un avviso di garanzia durante il proprio mandato, nei giorni scorsi l’ex sindaco di Milano Gabriele Albertini ha illustrato al Corriere della Sera il proprio modus operandi. Punto primo: niente incarichi a chi aveva ricevuto anche solo un avviso di garanzia. Punto secondo: prima di procedere ad una nomina, la sottoponeva al capo della procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, per un parere di merito. Tradotto: il sindaco faceva strame del principio della presunzione di innocenza e affidava alla procura l’ultima parola sulle proprie nomine. Non più la “separazione”, dunque, ma la condivisione dei poteri.
Il sindaco di Roma Ignazio Marino si spinse anche più in là. Nel 2015 sottoscrisse un protocollo d’intesa con l’Autorità nazionale anticorruzione, allora guidata da Raffaele Cantone, in base al quale il Comune trasmetteva preventivamente all’Anac la documentazione riguardante gli appalti più rilevanti e procedeva solo dopo aver avuto un via libera formale. Obiettivo dell’insolito metodo non era garantire la legalità, ma, come dicono a Roma, pararsi il culo. Rendere, cioè, la magistratura corresponsabile delle scelte assunte dall’amministrazione.
Un metodo pavido, rinunciatario, succube. Ma giustificato dall’andazzo generale. Esempio. Lo scorso agosto la maggioranza di centrodestra ha abrogato il reato di abuso d’ufficio, ben sapendo che quasi mai tale imputazione porta ad una condanna, ma quasi sempre il timore di tale imputazione porta alla paralisi le amministrazioni pubbliche. Ebbene, come balza gli occhi dall’inchiesta di Milano, i pubblici ministeri hanno di conseguenza preso ad imputare di un reato ancor più grave, la corruzione, i funzionari pubblici che intendono indagare sulla base dei loro teoremi.
Questo, dunque, l’andazzo. E in questo andazzo stupisce lo stupore di chi si chiede come mai i partiti non riescano a trovare personalità autorevoli della società civile disposte a candidarsi per il ruolo di sindaco della propria città.
La Ragione