Crisi automotive, tra la scure dei dazi e lo scacco di Pechino

Crisi automotive, tra la scure dei dazi e lo scacco di Pechino

Licenziamenti, delocalizzazioni, chiusure. La crisi globale dell’automotive si inasprisce e le tensioni commerciali tra Washington e Pechino propagano i loro effetti sino a Bruxelles, stringendo in una doppia morsa il mercato europeo delle quattro ruote, già messo in ginocchio da un’inesorabile perdita di competitività, che si traduce in una profonda contrazione prevista almeno fino al 2030. Parimenti, le stime indicano un crollo della produzione di 15 milioni di veicoli entro il 2028 rispetto alle rilevazioni del 2022. Alle cause endogene e strutturali del declino, quali l’eccesso di regolamentazione e una transizione energetica forzata e prematura, si sommano nuove ragioni esogene. A rendere più cupo lo scenario, infatti, non vi è la sola guerra dei dazi trumpiani, ma lo stallo delle catene di approvvigionamento asiatiche, iniziato con la pandemia di Covid e mai completamente superato.

La scure che si abbatte ora sul settore è l’ulteriore stretta di Pechino sulle terre rare, divenute imprescindibili non solo per la produzione di veicoli elettrici, ma anche per le componenti elettroniche delle tradizionali auto a motore endotermico. Un contorto e farraginoso meccanismo burocratico, parte di un’oculata e più ampia strategia del Dragone, rende sempre più ostico l’ottenimento e il rinnovo di licenze all’importazione di metalli critici e magneti dal colosso asiatico, mettendo alle strette gli stabilimenti del nostro continente, la cui produzione arranca, con un crollo delle immatricolazioni di nuovi veicoli del 18% rispetto ai livelli pre-pandemia.

Pressoché impossibile individuare alternative alla Cina, che controlla il 70% delle estrazioni minerarie e il 90% della capacità di lavorazione di terre rare a livello globale. È con questo stratagemma che Pechino rivendica un primato incontrastato e procura un vantaggio competitivo senza pari al comparto nazionale, in crescita esponenziale, già affermatosi come primo esportatore mondiale ai danni del Giappone. A pagarne le conseguenze sono le concorrenti di ogni continente che, causa esaurimento scorte, si vedranno costrette, con ogni probabilità, a congelare la produzione in decine di stabilimenti già questo mese.

Principale vittima, in Europa, è il comparto tedesco. È Berlino, infatti, che aveva lanciato l’allarme sulla carenza di terre rare già lo scorso gennaio, la più vulnerabile alla guerra commerciale in atto e all’incertezza che regna sul mercato. Volto del declino, nella Germania maglia nera dell’eurozona per crescita, è il gruppo Volkswagen, costretto ad attuare il suo piano di ridimensionamento industriale lacrime e sangue, annunciato lo scorso anno, in siffatto scenario di nuove e rinnovate minacce. Con l’invito alle dimissioni previa lauta buonuscita, accettate in questi giorni da 20.000 dei 35.000 dipendenti di cui è previsto il taglio, Wolfsburg scommette contro il proprio stesso futuro: un ritratto eloquente delle condizioni in cui versa il colosso, che preferisce sostenere un esborso fino a 400.000 euro per la liquidazione di ciascun dipendente accompagnato alla porta piuttosto che mantenere l’organico e attendere tempi migliori. Il segnale lanciato ai mercati non si presta a equivoci: della crisi vi è certezza, della ripresa nient’affatto.

Se Berlino piange, il resto del continente non ride, con il gruppo Stellantis che performa al di sotto delle previsioni, calando dell’8% nelle immatricolazioni di maggio. A pesare, l’aumento delle tariffe doganali sull’acciaio. Nel frattempo, a certificare l’inadeguatezza europea alla sovranità tecnologica in tema di mobilità elettrica, si aggiunge la bancarotta di Northvolt, azienda svedese produttrice di batterie al litio su cui la Banca Europea d’Investimenti ha puntato circa 400 milioni di euro dei contribuenti e costretta a dichiarare fallimento prima ancora di poter incassare nuove tranche di finanziamenti. Con i libri contabili portati in tribunale già a marzo, cala ora il sipario definitivo sulla gigafactory svedese, che questo mese interromperà definitivamente la produzione.

Le speranze del settore sono ora riposte sull’auspicato addolcimento del Green Deal europeo, verso cui la Commissione, in queste settimane, ha lanciato timidi segnali di apertura. “Dobbiamo raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione e garantire i target per il clima”, ma “garantendo competitività alle imprese”. Così la socialista e ambientalista Teresa Ribera, ex Vicepresidente del Governo spagnolo sotto Pedro Sanchez e ora in forze come Vicepresidente esecutiva della Commissione europea. Dichiarazioni che accompagnano le attese, entro giugno, di ritocchi al ribasso nei target climatici per il 2040 e nuove opzioni di flessibilità per gli Stati membri. Concessioni marginali, frutto di iter lenti ed estenuanti, mentre la corsa all’innovazione e al predominio cinese appare inarrestabile. Tutto tace, per giunta, sul rinvio dello stop ai motori endotermici nel 2035. Il timore è che sia troppo poco, troppo tardi, per rimettere l’auto europea in carreggiata.

 

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