Contrattare

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Ci sono 591 contratti nazionali di lavoro scaduti, su un totale di 955. La cosa riguarda 6,8 milioni di lavoratori dipendenti, su un totale di 12,8. Il minimo che i sindacati chiedono è il recupero dell’inflazione, più in generale pesa il fatto che i salari italiano sono, in media e da trenta anni, al palo, se non in regresso, mentre in Francia sono cresciuti del 31.1% e in Germania del 33.7. Messa così, non resta che aumentare i salari ben oltre l’inflazione. Ma messa così non funziona affatto.

Cominciamo dall’inflazione. Diversi governanti italiani e qualche significativa voce dal mondo imprenditoriale hanno (inopportunamente) criticato la Banca centrale europea per il rialzo dei tassi d’interesse, destinato a contrastare l’inflazione. La Bce sbaglia, dicono, perché l’inflazione europea è importata e aumentare i tassi non la farà scendere, mentre rallenta la crescita. Sempre che non inneschi la recessione. Purtroppo, però, l’inflazione di base, quella interna e non importata, è proprio quella che non accenna a scendere e si colloca oggi attorno al 5%. Se i salariati recuperassero il potere d’acquisto perso con l’inflazione ciò comporterebbe una spinta inflattiva, pertanto taluni chiedono, accorgendosene o meno, una cosa e il suo contrario.

Ma mettiamo che questo problema non esista e prendiamo come esempio il contratto della scuola, che riguarda all’incirca 900mila persone. Sono disponibili subito 300 milioni, più altri 100, per finanziare i rinnovi, ma questo solo a patto di prendere i soldi che erano stati accantonati, dal governo Draghi, per premiare il merito. Quindi, se si usano per il contratto di tutti, si cancellano per il merito di molti. Dopo avere iscritto il merito nel nome del ministero, un suggestivo testacoda.

Altro esempio illuminante, il contratto dei collaboratori domestici. Qui i numeri sono più scivolosi, ma siamo intorno ai 2 milioni di lavoratori. L’inflazione colpisce tutti, ma per i salari più bassi può comportare rinunce dolorose. E questi lavoratori hanno salari bassi. Solo che a pagarli non è il “kapitale” o il “padronato”, bensì le famiglie, abitate da altri lavoratori. Se recuperano l’inflazione i dipendenti si impoveriscono i datori, che magari non la recuperano. Si aggiunga che i numeri sono scivolosi perché quasi il 59% di questo mercato è irregolare. Il che non è dovuto solo a “normale” evasione, ma anche a distorsione fiscale: se il reddito del dipendente cresce “troppo” egli perde benefici d’esenzione, per cui è spesso il dipendente stesso a chiedere l’irregolarità. E se si sta parlando di una persona che ha guadagnato la fiducia della famiglia, magari badando ad un anziano, rinunciarci e sostituirlo è difficile.

Rimettendo in fila i pezzi: a. l’inflazione c’è, erode il potere d’acquisto, inseguirla è molto pericoloso, quindi non ha senso scagliarsi contro le politiche anti inflattive; b. è vero che i salari non hanno tenuto il passo europeo, ma neanche la produttività l’ha tenuto; c. se vogliamo che le cose funzionino dobbiamo piantarla di credere sia giusto pagare tutti allo stesso modo e per anzianità, ma serve accantonare quattrini per premiare il merito; d. se per accontentare il lavoratore si finisce con l’accoppare il datore il salario sparisce.

Ciò comporta, proprio ora che si rinnovano i contratti, ove si voglia cambiare e riprendere a far correre sia i salari che la produttività, capire che i primi non sono indipendenti dalla seconda. Come capire che non possono essere indipendenti le pensioni e se continuiamo a favorire i pensionamenti il mitico “cuneo fiscale” non cala manco a cannonate. Legare il salario alla competitività, il premio al raggiungimento dei risultati, aiuterebbe a vivere in un mercato più giusto, più rispettoso delle persone e più dinamico. Il sindacato avrebbe il diritto/dovere di vigilare il nesso. Le imprese di investire. Il governo avrebbe il dovere di eliminare gli ostacoli. Rivendicare senza riformare porta a stagnare, impoverendo tutti.

La Ragione

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