Concorrenza “salvo intese”

Concorrenza “salvo intese”

Il programma Nazionale delle Riforme, ormai definito nei suoi tratti essenziali, evocherebbe uno slancio riformatore che allarghi le strettoie nelle quali si muove l’economia italiana. Le “semplificazioni”, d’altronde, non consistono nell’abolizione delle gare pubbliche (“salvo intese”, si intende). Infatti, quello che semmai manca all’Italia sono proprio le gare, intese come occasioni per tutti gli operatori economici di competere su un piano di parità offrendo al mercato le soluzioni più efficaci. Peraltro il momento non è dei migliori. Solo qualche giorno fa è apparso nel Decreto Rilancio, con pressoché unanime consenso, l’emendamento “Papeete”, dal nome del celebre stabilimento balneare in cui si celebrarono gli ultimi fasti dell’impero salviniano. Si è così prorogata la concessione delle spiagge fino al 31 dicembre 2033, data dalla quale potranno cominciare le aste competitive. Orbene, tale normativa è in contrasto con la direttiva europea Bolkestein del 2006 e, conseguentemente, tutti i provvedimenti nazionali di rinvio sono stati dichiarati illeciti dalla Corte di Giustizia Europea nel 2016 e dalle successive sentenze dei giudici italiani. Ora, nel clima di oggi, alcuni politici cantano «Dell’Europa me ne frego», come ce ne si fregava delle «inique sanzioni» comminate all’Italia per l’invasione dell’Etiopia. Ma qui chi ci rimette sono i cittadini sotto ben due profili. Come contribuenti, perché senza gare, per esempio, un altro noto stabilimento, il famoso “Twiga” di Forte dei Marmi paga 17.600 euro di canone l’anno contro un fatturato di circa 4 milioni e in Italia lo Stato porta a casa 103 milioni a fronte di fatturati annuali stimati tra i 7 e addirittura 15 miliardi. E come cliente, perché si blocca l’ingresso di nuovi operatori che potrebbero risultare più efficienti, organizzati, innovativi. Inconsistente è la scusa di «essere dalla parte degli imprenditori»: qui si sta dalla parte di rendite di posizione belle e buone. La situazione non sembra migliore nel settore delle acque minerali dove, secondo un rapporto del Mef, i 295 concessionari delle fonti, con un giro d’affari di 2,8 miliardi di euro, pagano allo Stato 18 milioni l’anno. Ancor più sconsolante è che alcune concessioni sono perpetue e una, solo una, è stata assegnata attraverso una gara pubblica! Ecco, a fronte di tutto questo, ci si aspettava che il Pnr avrebbe dato impulso a una politica di liberalizzazioni per rimediare a queste ed altre storture. Invece si scopre che il governo ha solamente intenzione di rendere più concorrenziale la distribuzione dei carburanti ed emanare linee guida che impediscano ai sindaci terrapiattisti di dichiarare il proprio comune libero dalla rete 5G. Per carità, propositi utili ma, insomma, non decisivi. Promozione di accordi di libero scambio della Ue con paesi extracomunitari? Niente. L’introduzione di una normativa, da tempo reclamata dall’Autorità Antitrust, per il trasporto pubblico urbano intesa a favorire la tecnologia digitale e la concorrenza? E chi li sente i taxisti? Il divieto della pubblicità sanitaria che, ancora secondo il Garante della Concorrenza, riduce la possibilità di informarsi sulle strutture sanitarie e sulla loro efficienza, pur rimanendo precluso ogni annuncio ingannevole? Rimane lì. Non pervenuto né lo sfoltimento delle società municipalizzate tante volte promesso, né la liberalizzazione del notariato e in misura minore delle altre professioni liberali (si pensi che il direttore sanitario di una clinica deve essere iscritto all’Ordine della stessa provincia: magari si teme che non capisca il dialetto dei dipendenti) nonché delle farmacie. Basta così. Purtroppo, tra tante pagine di buone intenzioni, non ha trovato spazio la promozione della libertà economica, che serve a chi ha spirito innovativo e d’impresa e beneficia tutti i consumatori.

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