Chi odia la società aperta

Chi odia la società aperta

No maggioritario, no voucher. Ha scritto Baudelaire che «il più bel trucco del diavolo sta nel convincerci che egli non esiste» (frase citata, con riferimento a un inafferrabile fuorilegge, nel film «I soliti sospetti»). In Italia, il capolavoro dei nemici della società aperta — i soliti sospetti? — è consistito nel far credere a tanti che non esistesse alcun rapporto fra l’assetto istituzionale del Paese e le «politiche» dei governi.

Ma non è così. Con il ritorno del regime proporzionalistico (aggravato dal mantenimento del bicameralismo paritetico), data la necessaria precarietà degli esecutivi, persino un sindacato in declino come la Cgil (ri)acquista un peso decisivo, un potere di veto irresistibile.

La decisione di Gentiloni sui voucher è un’anticipazione dello stile di governo che prevarrà quando, dopo le prossime elezioni, torneremo definitivamente alla «normalità» proporzionale (dopo un ventennio di parziale, assai imperfetta, anormalità maggioritaria).

I più hanno tirato (giustamente) un sospiro di sollievo perché il movimento antieuropeista di Wilders non è diventato primo partito in Olanda. Magari — si sono detti — la «sequenza infernale» è finita: dopo Brexit e Trump ora si volta pagina, le forze dell’apertura (dei mercati e della società) riprendono fiato e ricominciano a sconfiggere le forze della chiusura (i cosiddetti sovranisti).

Magari Marine Le Pen — si sono detti — verrà battuta in Francia e allora potremo ricominciare a pensare al futuro con speranza: la speranza che la «triade divina», composta da prosperità, libertà e pace, felicemente imperante in Europa negli ultimi settant’anni (ma fino alla fine della guerra fredda solo nella sua parte occidentale), non svanisca.

È lecito festeggiare perché Wilders non si è preso l’Olanda. Però, attenzione. Il suo è diventato comunque il secondo partito in un Paese ove vige la proporzionale pura e ove il panorama parlamentare, con tredici partiti, è ultra-frammentato. Significa che non sarà difficile per Wilders, dall’opposizione, condizionare l’agenda politica olandese.

Così come, dopo le elezioni, la condizioneranno in Italia (lo fanno già oggi) i Cinque Stelle. Anche, eventualmente, dall’opposizione. Magari, chissà?, è comunque vero che nel resto d’Europa sia in atto una riscossa dei nemici della chiusura dei mercati e delle società. Tuttavia, anche se così fosse, ciò non sarebbe sufficiente per farci pensare che l’Italia sia fuori pericolo. Perché l’Italia, purtroppo, ha certe sue specificità, alcune caratteristiche non riscontrabili altrove o, comunque, non con questa intensità.

In Italia i sentimenti illiberali sono assai diffusi — si spera solo che non siano ormai maggioritari. I bersagli di tanta ostilità sono i due pilastri della società libera o aperta: la democrazia rappresentativa e l’economia di mercato.

Quanto alla prima (stando ai sondaggi) la delegittimazione della classe parlamentare è ormai massima. Una parte ampia dei nostri concittadini pensa alle istituzioni rappresentative non come ad istituti che tutelano la nostra libertà ma come a luoghi di malaffare, centrali di corruzione: le solite «aule sorde e grigie» di mussoliniana memoria. È un dogma ormai accettato da tanti che questo, a causa dei politici, sia il Paese più corrotto del mondo o giù di lì.

Ci sono forze che hanno interesse a che i nostri concittadini lo credano: quanto più debole e delegittimata è la politica tanto più queste forze spadroneggiano. Se fossero le inchieste giudiziarie a darci la misura della corruzione, allora dovremmo ritenere vero quanto pensano gli italiani. Se non che, le sentenze all’ultimo grado di giudizio dicono cose piuttosto diverse dalle inchieste. Ciò conterebbe qualcosa se l’Italia fosse un autentico stato liberale di diritto. Ma con i suoi sommari processi mediatici e la generalizzata mancanza di rispetto per il principio di non colpevolezza di indagati e imputati non lo è.

A causa della delegittimazione delle istituzioni rappresentative, la classe politica, in questo Paese, è in balia di burocrazie, amministrative e giudiziarie, che hanno ormai preso il sopravvento. Si veda, sul rapporto amministrazione-politica, il bel libro di Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri (I signori del tempo perso).

Al punto che se un politico energico tenta di ristabilire il primato della politica, il fuoco di sbarramento diventa violentissimo. Si grida contro la tirannia politica alle porte, allo scopo di difendere il predominio di quelle burocrazie. Anche il secondo pilastro, il mercato, è sotto attacco.

La lunga crisi economica ha rivitalizzato le tradizioni anticapitaliste del Paese. Un tempo c’erano i tanti fautori della rivoluzione, oggi ci sono i loro eredi, nonché i teorici della decrescita felice e altre bufale pseudo-ecologiste. Tutti insieme solleticano gli istinti peggiori del pubblico contro «l’Europa dei banchieri», il «grande capitale», e gli altri mostri impegnati a vampirizzare il popolo.

Un Paese in declino demografico ed economico, e che vi si è rassegnato, è forse il più idoneo per adottare ricette di «politica economica» collaudate altrove in altri anni, ricette che hanno già fatto disastri in Argentina, Venezuela, Perù, e altri luoghi.

Serve un miracolo e bisogna avere fiducia. Magari l’interruzione della sequenza infernale, e il salvataggio della società aperta, riguarderanno tutta Europa. Italia compresa. [spacer height=”20px”]

Angelo Panebianco, Il Corriere della Sera 20 marzo 2017

 

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