“Bella ciao” nella recita di Natale

“Bella ciao” nella recita di Natale

Sulla Resistenza italiana si possono avere i giudizi più disparati ma che essa rappresenti il momento fondativo dalla nostra Repubblica, a cui ha dato anche l’ideologia di base, cioè l’antifascismo, è indubbio. Da essa è poi nata anche la Costituzione, alla cui ombra, nonostante i limiti storici che la Carta mostra oggi ai nostri occhi, è comunque potuta crescere una società aperta e democratica seppure imperfetta. In verità, la ricerca storica ha molto contribuito, negli ultimi anni, a restituirci nella sua realtà quell’importante evento storico, al di là di ogni mitologia. Tuttavia che il mito possa continuare a operare, seppur con i necessari distinguo che la distanza storica oggi ci permette di avere, potrebbe essere anche giusto e utile alla coesione nazionale se esso non venisse ad ogni pie’ sospinto strumentalizzato.

Il fatto è che quel passato, nella nostra irrisolta coscienza nazionale, sembra non passare mai: piuttosto che affrontare con pragmatismo i problemi dell’oggi, vittime tutti di una sindrome da “coazione a ripetere”, continuiamo a utilizzare la Resistenza e la Costituzione come clavi con cui colpire e delegittimare i nostri avversari politici. Una comoda scorciatoia a cui non sembra sottrarsi il corpo insegnante che, spesso imbevuto di ideologie maturate nel “lungo Sessantotto” italiano, tende a politicizzare le lezioni e ogni momento della vita scolastica. È in questo contesto che sembra inserirsi la vicenda della scuola De Amicis di Napoli, in cui la recita di Natale è stata sostituita quest’anno da una giornata in onore della Resistenza e della Costituzione, con i ragazzi a cantar “Bella ciao” al posto dei più tradizionali canti dedicati alla Natività. Dopo la protesta di un genitore, il caso è montato così tanto che si è arrivati alla surreale scena del consiglio comunale in piedi a intonare il canto dei partigiani in segno di solidarietà con gli insegnanti. Un chiaro esempio di strumentalizzazione a cui purtroppo la giunta cittadina, forse per distrarre i napoletani dagli atavici problemi della città, ci ha ormai abituati.

Visto il reiterarsi su tutto il territorio nazionale di situazioni assimilabili a quella napoletana, credo sia giunto il momento di chiederci un po’ tutti perché ciò accada ancora oggi con tanta frequenza. Credo che ciò dipenda soprattutto dal combinato disposto di due fattori: uno storico e uno più legato al presente. Da un lato, è da considerare che la storia ha voluto che a fondare la Repubblica sia stato un momento altamente divisivo: la Resistenza, infatti, stante l’ampio consenso di cui il fascismo ha goduto fino all’ultimo fra gli italiani, si è presentata alle coscienze più come una “guerra civile” che come un moto di rigenerazione nazionale. Dall’altro lato, è evidente che la nostra è , sin dalle origini risorgimentali, una nazione attraversata da enormi faglie divisorie: fra Nord e Sud, cattolici e anticlericali, ricchi e poveri, città e campagne… Nessun partito è riuscito mai, fino in fondo, a rappresentarle tutte in un comune sistema di valori. Per la sua forte valenza storica, il cleavage fascismo/antifascismo è servito e serve ancora, soprattutto in momenti di crisi come l’attuale, a creare una identità per opposizione. E poco importa che poi questa opposizione sia fondata su elementi simbolici più che reali. Ciò presuppone che la Resistenza sia elevata a categoria sovrastorica, quasi metapolitica. E che svolga la funzione di tranquillizzare e rassicurare chi, ad esempio su temi fortemente divisivi come l’immigrazione, vuole trovare un senso alla propria azione sottraendosi alla difficoltà di scegliere e distinguere in una situazione complessa. Il “fascista”, che risponde sempre per le rime incrementando il gioco, c’è sempre: ieri era Berlusconi, oggi è Salvini. Non sarà sembrato vero all’artefice del primo atto di questa ennesima sceneggiata napoletana, ma potremmo dire italiana, di poter cogliere questa volta, come suol dirsi, due piccionicon una sola fava: non “offendere” gli studenti immigrati, o meglio non cattolici, e nel contempo celebrare il mito della Resistenza anche quando non c’entra un bel niente (il 25 dicembre non è il 25 aprile), sono infatti due atti legati fra loro dall’appartenenza al comune sentire della metà progressista e “politicamente corretta” del nostro paese. Spegnere il gioco a somma zero fra “buoni democratici” e “fascisti” impenitenti, e diventare tutti più maturi dividendoci sui problemi dell’oggi e non sui simboli del passato, questo sì che sarebbe davvero un auspicabile salto in avanti per la politica e per la nostra stessa coscienza nazionale!

Corrado Ocone, Il Mattino 22 dicembre 2018

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