Anche lo Stato se sbaglia paga: introdotto in legge di bilancio il diritto dell’imputato assolto al rimborso delle spese legali sostenute

Nell’orizzonte, ultimamente piuttosto fosco, del sistema penale, domenica sera si è intravisto un bagliore di luce. Nel corso dell’esame del disegno di legge di bilancio, la V Commissione della Camera ha approvato l’emendamento 177.016, che sancisce il diritto dell’imputato assolto al rimborso delle spese legali sostenute e istituisce un apposito fondo, con dotazione annua di 8 milioni di euro. Il testo subordina il rimborso in questione a una serie di condizioni e limiti: i) deve trattarsi di sentenza divenuta irrevocabile, resa con le formule il fatto non sussiste, l’imputato non ha commesso il fatto, il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato; ii) il rimborso non spetta in ipotesi di assoluzione da uno o più capi di imputazione e condanna per altri reati; di estinzione del reato per avvenuta amnistia o prescrizione; di sopravvenuta depenalizzazione dei fatti oggetto di imputazione; iii) il limite massimo rimborsabile – fino a capienza del fondo dedicato – è pari a 10.500 euro: l’importo, che non concorre alla formazione del reddito, è erogato in tre quote annuali di pari ammontare, dietro presentazione di fattura del difensore, con espressa indicazione causale e dell’avvenuto pagamento, corredata da parere di congruità del competente Consiglio dell’ordine degli avvocati, nonché da copia della sentenza di assoluzione con attestazione di cancelleria della sua irrevocabilità.

L’emendamento ha come promotore e primo firmatario Enrico Costa (Azione), il quale peraltro nel settembre 2019 aveva già depositato una proposta di legge in materia. Il testo ha raccolto le sottoscrizioni anche del gruppo Forza Italia, da sempre impegnata in questa direzione, che aveva a sua volta depositato un emendamento a prima firma Zanettin di analogo tenore; si sono poi uniti anche Lucia Annibali di Italia Viva e Maurizio Lupi di Noi per l’Italia; la Lega, dal canto suo, ha sostenuto l’innalzamento del budget stanziato; in Commissione, infine, tutti i gruppi hanno votato a favore, con il parere positivo del Governo.

La modifica aspira a sanare una stridente aporia che, almeno fino ad oggi, ha caratterizzato il processo penale.

In tale ambito, al contrario di quanto avviene nel processo civile, amministrativo e contabile, il pagamento delle spese di giustizia e delle spese legali non segue la regola della soccombenza; dunque, anche in caso di proscioglimento o assoluzione con le formule ampiamente liberatorie le spese legali restano a carico dell’imputato.

A nulla vale che questi sia riuscito a dimostrare la propria assoluta estraneità al reato, o addirittura l’insussistenza di un qualunque fatto di rilevanza penale. Allo stesso modo – e ciò è anche più grave – a nulla vale che lo Stato abbia esercitato erroneamente la propria pretesa punitiva, sottoponendo senza ragione la persona al lungo, defatigante e spesso umiliante calvario delle indagini e del processo: come insegnava Salvatore Satta, del resto, il processo è esso stesso la pena.

Questa peculiarità (negativa) del processo penale urta non solo rispetto al comune buon senso e ai più banali criteri di giustizia sostanziale, i quali peraltro dovrebbero essere il “canone aureo” della legislazione; ma anche con il quadro dei principi cardine dello Stato di diritto e della nostra Costituzione.

Come noto, la regola victus victori ha una matrice chiara e incontestabile: la necessità di ricorrere al giudice non deve tornare a danno di chi abbia ragione, chiamando, quindi, colui che è stato dichiarato soccombente dal giudice al pagamento delle spese di lite e degli onorari di difesa. La ratio di questa norma è, in poche parole, quella di ristabilire un corretto equilibrio del rapporto fra le parti, che non devono (o almeno non dovrebbero) subire un pregiudizio per il fatto di essere state costrette a convenire o per essere state convenute in giudizio quando il giudice abbia poi concluso riconoscendo il loro buon diritto.

Appaiono cristalline, in questa prospettiva, le parole della Corte costituzionale: “l’alea del processo grava sulla parte soccombente perché è quella che ha dato causa alla lite non riconoscendo, o contrastando, il diritto della parte vittoriosa ovvero azionando una pretesa rivelatasi insussistente. È giusto, secondo un principio di responsabilità, che chi è risultato essere nel torto si faccia carico, di norma, anche delle spese di lite, delle quali invece debba essere ristorata la parte vittoriosa. Questa Corte ha in proposito affermato che «il costo del processo deve essere sopportato da chi ha reso necessaria l’attività del giudice ed ha occasionato le spese del suo svolgimento» (sentenza n. 135 del 1987). La regolamentazione delle spese di lite è processualmente accessoria alla pronuncia del giudice che la definisce in quanto tale ed è anche funzionalmente servente rispetto alla realizzazione della tutela giurisdizionale come diritto costituzionalmente garantito (art. 24 Cost.). Il «normale complemento» dell’accoglimento della domanda – ha affermato questa Corte (sentenza n. 303 del 1986) – è costituito proprio dalla liquidazione delle spese e delle competenze in favore della parte vittoriosa” (così, da ultimo, Corte cost., sent. n. 77 del 2018).

Ora, come riconosce la stessa Corte, la regola della soccombenza non ha portata assoluta, e ben possono esistere situazioni eccezionali che giustificano la compensazione delle spese, cui in ogni settore dell’ordinamento si conferisce rilievo. Tuttavia, nel vigente sistema penale, la soluzione opposta di aver assunto a regola assoluta la compensazione, senza mai ammettere (se non nel caso del querelante) la refusione delle spese processuali, almeno per l’imputato assolto con formula piena, configura una endemica violazione di diverse e fondamentali norme costituzionali: del principio personalistico dell’art. 2, in base al quale la Repubblica riconosce e garantisce a ciascuno i propri diritti, senza ostacolarli o “farli pagare” indebitamente; del principio solidaristico sempre dell’art. 2, in virtù del quale in simili vicende ben potrebbero redistribuirsi sulla collettività i costi sostenuti dal singolo che si è difeso, di fronte a un infondato tentativo pubblico di far valere l’interesse della comunità all’attuazione della pretesa penalistica; dell’art. 24 Cost., che definisce il diritto di agire e difendersi in giudizio un diritto fondamentale, un tratto caratterizzante della nostra forma di Stato, il quale non può tollerare di essere “tassato” o condizionato in maniera irragionevole; dell’art. 27 Cost., il quale ricollega la pena ad un accertamento di colpevolezza, e che mostra a ogni evidenza la corda,  là dove l’imputato, pur scagionato con formula piena, si trovi di fatto sanzionato, perché costretto a pagare un’ingente somma pecuniaria che, per entità, poco ha da invidiare a multe e ammende; dell’art. 111 Cost. e del fascio di diritti e situazioni giuridiche che nel complesso delineano il giusto processo, e che precludono la persistente vigenza di questo “privilegio della parte pubblica”.

In aggiunta, e riprendendo le considerazioni svolte in apertura, va poi considerato che il sistema penale rappresenta un unicum rispetto al sistema processuale civile, amministrativo e contabile, dove vige la regola della soccombenza, beninteso con i necessari temperamenti. Questa “eccezionalità” appare del tutto priva di ragionevolezza, e quindi contraria all’art. 3 Cost.: non si vede perché la parte pubblica, ove soccombente, non possa essere chiamata a rifondere le spese processuali, almeno nel caso di formula ampiamente liberatoria. Neppure può invocarsi una presunta esigenza di far salve le finanze pubbliche: da un lato, perché tale esigenza non potrebbe avere un rilievo così assoluto, da soverchiare del tutto il diritto fondamentale alla difesa; dall’altro lato, perché anche nel giudizio amministrativo, dove la P.A. è tipicamente convenuta, la parte pubblica soccombente paga, senza che ciò abbia mai sollevato particolari problemi concettuali o crisi finanziarie. Ancor più evidente la distonia rispetto al giudizio contabile, per diversi profili assimilabile a quello penale: l’art. 31 del Codice della giustizia contabile, infatti, non solo prescrive la regola della soccombenza, ma accorda altresì al giudice il potere di condannare la parte soccombente al pagamento in favore dell’altra parte (anche pubblica) di una somma equitativamente determinata, quando la decisione sia fondata su ragioni manifeste o orientamenti giurisprudenziali consolidati.

Ugualmente irragionevole, poi, è la previsione attuale, secondo cui solo per i reati perseguibili a querela, può essere richiesta al querelante la rifusione delle spese processuali: scelta singolare, non solo perché è comunque il PM che, semmai, esercita l’azione penale, ma anche perché rende ristorabili le spese per i soli reati di minor allarme sociale, laddove sarebbe stato più opportuno, invece, tutelare di più i soggetti scagionati per ingiuste imputazioni legate ai più gravi reati perseguibili d’ufficio.

A conforto di quanto finora sostenuto, può citarsi un’ampia messe di esperienze comparatistiche: in ben 28 Stati sono previste, pur con sfumature diverse, forme di ristoro delle spese legali a beneficio del soggetto assolto con formula ampiamente liberatoria (Albania, Austria, Bosnia-Erzegovina, Bulgaria, Repubblica Ceca, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Irlanda, Lituania, Lussemburgo, Macedonia, Malta, Moldavia, Monaco, Montenegro, Norvegia, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Turchia e Ungheria).

In conclusione, la novità introdotta nella legge di bilancio merita senz’altro di essere salutata con favore, pur rappresentando la mossa di apertura, piuttosto che l’approdo, di un percorso che deve condurre all’integrale ristoro delle spese per tutti gli imputati assolti. Come ammettono gli stessi autori della proposta – che ne sono ben consapevoli – il fondo stanziato in legge di bilancio può verosimilmente bastare a compensare solo 700-800 dei circa 90.000 imputati assolti in media ogni anno con formula piena; e tuttavia, è di capitale importanza che questo principio di civiltà abbia fatto breccia nell’ordinamento, a maggior ragione in una congiuntura come l’attuale, segnata da frequenti pulsioni giustizialiste. Da esplorare, poi, le prospettive che si aprono sul versante della responsabilizzazione degli organi inquirenti nell’esercizio dell’azione penale.

Lo Stato di diritto non può mai smarrire la sua stella polare, che è la garanzia della libertà del cittadino contro l’aggressione dell’autorità. In questa logica, il diritto penale, che rappresenta la massima forma di minaccia del potere alla sfera delle libertà individuali, non può non essere “liberale”; non può non essere circoscritto nelle forme della stretta ragionevolezza e proporzionalità; non può non incarnare la ragione delle leggi che prevale sulla passione degli uomini; e certamente non può far finta di nulla, dopo aver fatto camminare fra i carboni ardenti un innocente.

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