E ora, come la mettiamo con l’ipotesi genocidaria? Ora che Benjamin Netanyahu ha accettato un piano di pace che non prevede la deportazione dei palestinesi da Gaza, ma, al contrario, la nascita di un governo guidato da “palestinesi”, come potranno i teorici dell’orrida similitudine tra lo Stato di Israele e il Terzo Reich andare avanti con la loro retorica?
Martedì mattina, ad Omnibus, su La7, mi è capitato di porre la questione all’europarlamentare di Avs Benedetta Scuderi, in collegamento da un’imbarcazione della Global Sumud Flottilla. Scuderi non ha fatto una piega: “Il genocidio si è già avverato”, ha detto. Se ne deduce che fino all’incontro con Donald Trump alla Casa Bianca, Benjamin Netanhyauh abbia inteso sterminare uno a uno i palestinesi in quanto tali, e che poi, chissà perché, avrebbe cambiato radicalmente strategia. È un’interpretazione credibile? A giudizio di chi scrive è un’ipotesi che non sta in piedi. Senza contare la bontà degli argomenti opposti alla tesi genocidaria dal filosofo francese Bernard-Henri Lévy, ferocemente contrario al governo Netanyahu. In sintesi, se l’obiettivo era quello di sterminare i palestinesi, perché le Forze armate israeliane avevano l’abitudine di avvertire la popolazione di Gaza degli attacchi imminenti, consentendo così ai civili di sottrarsi a morte certa? E perché, se l’obiettivo era la sistematica cancellazione di un intero popolo, Israele ha, come certificato dal Financial Times, consentito l’ingresso a Gaza di almeno 120 camion al giorno di aiuti alimentari destinati alla popolazione civile? Domande, evidentemente, senza risposta.
Che Benjamin Netanyahu e il suo governo si siano macchiati di crimini di guerra e/o contro l’umanità è piuttosto evidente. Che bisogno c’è, allora, di insistere con l’accusa di genocidio?
La Convenzione adottata il 9 dicembre del 1948 dalle Nazioni Unite qualifica come genocidio l’uccisione di membri di un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso e le lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, fattori che, purtroppo, si riscontrano in quasi tutte le guerre. Ma prevede anche la sottomissione del gruppo a condizioni di esistenza che ne comportino la distruzione fisica, totale o parziale, l’attuazione di misure tese a impedire nuove nascite in seno al gruppo, quali l’aborto obbligatorio, la sterilizzazione, gli impedimenti al matrimonio ecc., il trasferimento forzato di minori da un gruppo all’altro. E di queste condizioni, evidentemente, non vi è traccia. E allora, perché insistere con l’infamante accusa?
In una recente intervista rilasciata al Corriere della Sera, il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, ha paventato che l’obiettivo sia quello di relativizzare l’Olocausto fino a farne perdere la memoria. Condizione che, come certificano le migliaia di violenze ai danni degli ebrei – degli ebrei, non degli israeliani – che in questa drammatica fase storica si perpetuano nelle democrazie occidentali, sembra fatta apposta per creare le condizioni di una nuova persecuzione antisemita.
Se non è questo l’obiettivo strategico di chi, oggi, evoca il “genocidio” dei palestinesi, viene da consigliare un uso dei termini più prudente, e soprattutto più attinente alla realtà.