Abrogare il Jobs Act non è nell’interesse dei lavoratori

Abrogare il Jobs Act non è nell’interesse dei lavoratori

In un periodo in cui quasi tutti (a cominciare dai politici) sentono il bisogno di misurare frequentemente la popolarità e il consenso di cui godono sarebbe ingiusto biasimare Maurizio Landini per il suo referendum abrogativo di alcune norme in materia di lavoro, e soprattutto del Jobs Act di Matteo Renzi. In democrazia, infatti, il voto dei cittadini va sempre visto con favore, soprattutto se la discussione che ne accompagna il percorso di avvicinamento è autentica e di merito. In questo caso, però, è lecito nutrire qualche dubbio. I quattro quesiti referendari – per i quali si è aperta il 25 aprile la raccolta delle 500 mila firme – sono complessi, perché complessa e controversa è la materia. Non sarà facile spiegarli ai cittadini mentre è facile prevederne un’interpretazione quasi solo in chiave ideologica e propagandistica, pro o contro la riforma renziana. Questa riforma è lungi dall’essere perfetta (nessuna lo è) ma non può essere considerata responsabile dei tanti problemi del mercato italiano del lavoro. Almeno sotto il profilo della quantità – cioè dell’aumento del numero di occupati – il mercato sembra infatti avere imboccato la strada giusta nell’ultimo anno. I meriti di tale risultato positivo sono peraltro attribuibili non tanto, o non solo, al governo attuale ma anche alle riforme di governi passati e – cosa che spesso si dimentica – all’Unione Europea per il Pnrr, l’unico grande piano che davvero può servire ad aumentare e migliorare stabilmente il lavoro.

La preoccupazione per un nuovo scontro ideologico (sono già troppi quelli che distolgono attenzione ed energie dai problemi reali del Paese) vale soprattutto per il primo quesito referendario, che vorrebbe (si perdoni il bisticcio) “cancellare la famigerata cancellazione” dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, e quindi reintrodurlo, sia pure nella forma modificata dalla riforma del 2012 (ossia la riforma Monti-Fornero), anche con estensione alle aziende con meno di 15 dipendenti (ma con minimo di 5). Sarebbe per conseguenza abolito il contratto a tutele crescenti, introdotto dal Jobs Act nel 2015 per i nuovi assunti, a tempo indeterminato ma senza la prospettiva del reintegro in caso di licenziamento illegittimo, reintegro sostituito da un indennizzo crescente con l’anzianità di servizio. Gli altri quesiti sono piuttosto di carattere tecnico-giuridico ma tra di essi spicca l’introduzione della responsabilità del committente per gli infortuni in caso di appalti e subappalti, tema purtroppo molto attuale ma che potrebbe benissimo essere affrontato, senza troppi indugi, con una legge ordinaria.

La tutela del singolo posto di lavoro è senz’altro aspirazione comprensibile e giusta, ma attribuirle il ruolo centrale sembra un passo indietro nella storia e un ulteriore distanziamento dagli altri Paesi europei, dove il reintegro non è previsto eppure sia l’occupazione sia i salari sono più elevati e dove il lavoro autonomo di necessità (per mancanza di alternative) è assai meno frequente. La domanda che ci si deve allora porre è: quanto gioverebbe ai lavoratori una vittoria del sì al referendum? La risposta è incerta, come sempre in economia, ma diventa un chiaro “no” se, invece di rivolgersi solo ai lavoratori, si tenesse conto anche degli aspiranti tali e di chi, pur essendo in età di lavoro e senza impedimenti di salute, un’occupazione non ce l’ha e non la cerca attivamente. Si tratta di persone scoraggiate, demotivate, spesso isolate, come i giovani che non studiano né lavorano (i Neet) che rappresentano all’incirca il 20 per cento degli italiani tra i 15 e i 35 anni, un nostro tristissimo primato. Oppure di persone che, per vari motivi, non mettono la loro indipendenza economica tra le loro priorità, un problema soprattutto femminile, che contribuisce a spiegare – insieme alla carenza di servizi pubblici per le attività di cura – il grande divario occupazionale delle donne italiane rispetto a quelle degli altri Paesi europei.

È molto improbabile che il ritorno all’articolo 18 possa servire ad aumentare stabilmente e sensibilmente il nostro tasso di occupazione, mentre ricreerebbe i vecchi divari tra i protetti e gli esclusi. Gli strumenti necessari sono altri e conosciuti da tempo, ma poco o punto tradotti in realtà. Si tratta di un dialogo serrato e collaborativo tra scuola e imprese per aumentare la corrispondenza tra le competenze necessarie alle imprese e quelle fornite dal sistema educativo; della predisposizione di servizi di orientamento scolastico e professionale e di efficaci programmi di alternanza scuola-lavoro; dei servizi di cura atti a liberare il tempo delle donne. In altri termini, l’art. 18 guarda agli occupati, che stanno al numeratore del tasso di occupazione ma non facilita il passaggio di quanti – privi di lavoro e quindi presenti solo nel denominatore – vorrebbero transitare anche al numeratore, ossia essere occupati.

L’altro grande, strutturale problema italiano sono i livelli salariali comparativamente bassi, stazionari da troppo tempo e, soprattutto, diminuiti negli ultimi anni per effetto dell’inflazione. Anche in questo caso, non sarebbe il successo del referendum a risolvere il problema, mentre sarebbero utili il salario minimo legale per i lavoratori marginali; il rinnovo dei contratti collettivi senza eccessivi ritardi; migliori prospettive di carriera per i giovani e per le donne, e valorizzazione dei contratti integrativi, più sensibili alla produttività. I bassi salari italiani da lavoro dipendente sono imputabili alla bassa produttività di moltissime piccole imprese, particolarmente nel settore dei servizi; al basso numero di ore lavorate di molti lavoratori part-time; alla stagionalità del lavoro in settori, come il turismo, fortemente cresciuti dopo il Covid; alla scarsa dinamica delle carriere che finisce per schiacciare la struttura salariale. Tutte le cause strutturali qui sopra elencate richiedono uno sforzo di lungo periodo e non una crocetta sul quesito di un referendum anacronistico. Nella migliore delle ipotesi la crocetta sarebbe come togliere le foglie avvizzite dell’albero malato senza occuparsi delle malattie alle radici e delle azioni necessarie per risolverle.

La Stampa

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