Il 21 luglio del 2022 fui l’unico senatore di tutto il centrodestra a prendere la parola in Aula per confermare la fiducia a Mario Draghi. Lo rifarei. Lo rifarei perché mandare improvvisamente a casa l’uomo che a detta anche di chi decise di sfiduciarlo stava “salvando l’Italia” e farlo al solo fine di anticipare di qualche mese le elezioni nella speranza, evidentemente vana, di preservare la leadership di Matteo Salvini sul centrodestra non rientrava nel mio modo di intendere la responsabilità politica ed istituzionale. Lo rifarei, dunque, però…
Però occorre avere l’onestà intellettuale di ammettere che Mario Draghi fu, per l’Italia, un’occasione persa. Una gigantesca occasione persa. Forse l’ultima.
Nella storia repubblicana, mai nessuno ebbe, e si spera mai nessuno avrà, il potere che le circostanze conferirono all’ex presidente della Bce. Sostenuto in Parlamento dalla quasi totalità dell’arco costituzionale, sistematicamente “coperto” dal Quirinale e dalla Consulta, in piena e dovuta armonia con i presidenti di Regione, mai insidiato dall’ordine giudiziario, portato in palmo di mano dai partner internazionali, osannato dai mercati finanziari… Nei 20 mesi trascorsi a Palazzo Chigi, Mario Draghi ebbe, di fatto, quei “pieni poteri“ vagheggiati da Matteo Salvini in una notte di mezza estate. Ma non li usò. Non li usò politicamente.
L’Italia aveva allora, e naturalmente ancora oggi ha, due colossali problemi: l’inefficienza della propria Pubblica amministrazione, l’inefficacia del proprio sistema istituzionale. Problemi che Draghi conosceva meglio di chiunque altro. Il primo lo toccò con mano constatando l’abisso che separava la teoria dalla pratica in materia di Pnrr; il secondo, la crisi del sistema politico ed istituzionale, fu la ragione profonda che lo portò a palazzo Chigi.
Il Parlamento era marginalizzato, i partiti umiliati: a Mario Draghi sarebbe bastata un’alzata di sopracciglia per rilegittimare l’uno e gli altri, incoraggiandoli a varare tanto una profonda riforma della Pubblica amministrazione quanto una seria riforma dell’assetto istituzionale. Riforme di cui si parlava da decenni, riforme di cui si parlerà nei decenni a venire.
Mario Draghi era nelle condizioni di svolgere per l’Italia il ruolo provvidenziale che Charles de Gaulle svolse per la Francia, ma non lo fece. Non lo fece perché a lui la politica, in realtà, non interessava. Era interessato ad essere eletto presidente della Repubblica, e con questo unico fine accettò come passaggio doloroso ma necessario di svolgere pro tempore le funzioni di presidente del Consiglio. Funzioni che, a dispetto della narrazione più diffusa, avrebbe voluto in realtà continuare ad esercitare pur essendo fatalmente sfumato il suo sogno quirinalizio.
Ne ho avuto la prova la mattina di quel fatidico 21 luglio 2022. Che il treno destinato a travolgerlo fosse già partito era ormai chiaro. Chiamai, allora, la portavoce di Draghi e gliela misi più o meno così: “Se avete deciso di approfittare dell’ignavia dei partiti per rimettere il mandato, bene; ma se l’intenzione non fosse questa, dì al tuo capo di chiamare Silvio Berlusconi e di essere gentile come è giusto che sia”. Sapevo che Berlusconi aveva deciso di assecondare Salvini nel rovesciare il governo, ma sapevo anche che Berlusconi era uomo capace di cambiare improvvisamente idea e che considerava personalmente offensivo il fatto che Draghi lo snobbasse.
Mario Draghi era seduto ai banchi del governo nell’aula del Senato. Dall’alto del mio scranno, lo vidi rispondere ad una telefonata, poi lo vidi uscire col telefono in mano e rientrare dopo pochi secondi. Nell’arco dell’ora e mezza successiva la scena si ripetè almeno quattro volte. Incuriosito, lo avvicinai: “Presidente, è riuscito a parlargli?”. “Non me lo passano”, rispose Draghi allargando sconsolato le braccia. La risposta non mi sorprese. Berlusconi non usava il telefonino, per parlargli occorreva chiamare il centralino della residenza di Arcore, ma quel centralino era notoriamente commissariato da chi nel suo partito coltivava allora una sciagurata linea politica salviniana. Ebbi, però, la conferma del fatto che Mario Draghi sarebbe rimasto volentieri a Palazzo Chigi. Avrebbe continuato a gestire egregiamente l’ordinaria amministrazione, ma non per questo avrebbe trovato in sé lo spirito, tutto politico, del riformista intenzionato a raddrizzare una volta per tutte il legno storto del nostro malandato Paese.