Legge italiana sull’intelligenza artificiale: un primato senza settore?

Legge italiana sull’intelligenza artificiale: un primato senza settore?

Con l’approvazione da parte della Camera dei Deputati del Disegno di Legge sull’intelligenza artificiale, l’Italia si appresta a diventare il primo Paese europeo a dotarsi di una normativa organica in materia di IA: un passo che, nelle intenzioni, dovrebbe posizionarci all’avanguardia sul fronte della governance della materia. Sulla stregua dell’AI Act europeo e a distanza di un anno dalla sua promulgazione, il provvedimento, promosso dal Governo, è animato dal nobile intento di fissare paletti etici, di privacy e sicurezza nazionale dei dati in un campo dalle molteplici e delicate implicazioni. Tuttavia, in attesa dell’approvazione del testo in terza e definitiva lettura in Senato, prevista per le prossime settimane, emerge la stessa perplessità provata dinanzi al provvedimento quadro comunitario: non staremo mica regolamentando un settore che, di fatto, non abbiamo?

Analogamente all’approccio tenuto nel 2024 da Bruxelles e, come previsto, in ossequio ai precetti della normativa europea, il legislatore italiano sembra dedito all’enunciazione di principi e indicazioni talvolta generici, mentre il tessuto produttivo italiano nel settore stenta ad assurgere a una qualche rilevanza, sia essa economica, strategica, tecnologica. Infatti, al di là di sporadiche eccellenze in nicchie ben delimitate, mancano aziende italiane – ed europee – di respiro globale che operino direttamente nello sviluppo e nell’implementazione di soluzioni di IA proprietarie.

Guardando allo stato dell’arte delineato dal report annuale dell’Osservatorio sull’IA del Politecnico di Milano, il segmento in Italia registra un’indubbia ma altrettanto inevitabile crescita, persino del 58% dal 2023 al 2024, raggiungendo un valore di 1,2 miliardi di euro. Tuttavia, si tratta, come avviene nel resto del continente, di un settore che dipende quasi esclusivamente dall’implementazione di tecnologie e modelli di IA sviluppati sull’altra sponda dell’Atlantico, dove risiedono anche i server e i data center necessari all’elaborazione dei dati processati dall’IA e dove si sviluppano i semiconduttori e le altre componenti hardware a loro volta imprescindibili per la costruzione di tali infrastrutture. Di fatto, regolamentiamo non un settore della nostra industria, ma l’uso che facciamo del prodotto dell’industria altrui.

A testimonianza della schiacciante e incontrastata supremazia americana nel campo, vi sono 5300 data center sul suolo statunitense, pari a una fetta del 45,6% del totale globale. La Germania, seconda, ne ha poco più di 500: appena un decimo di quelli a stelle e strisce, con una quota del 4,4%. Per di più, come evidenziato da Politico, il 73% delle trenta maggiori aziende mondiali operanti nel settore dell’high-tech risiede negli Stati Uniti. In netta contrapposizione, l’Europa, nell’arco degli ultimi due decenni, non ha generato alcuna realtà imprenditoriale con una capitalizzazione pari ad almeno un trilione di dollari, mentre gli Stati Uniti ne hanno registrate nove. Inoltre, per quanto riguarda gli investimenti privati in intelligenza artificiale, secondo l’AI Index Report 2025 dell’Università di Stanford, tra il 2013 e il 2024 gli USA hanno raccolto 471 miliardi di dollari. Per confronto, nel solo 2024 la cifra ammonta a 109 miliardi: poco meno dei 119 miliardi che la Cina, seconda potenza a livello globale, ha raccolto in tutto il decennio. Il nostro Paese, invece, è fermo ad appena 1 miliardo nel decennio appena concluso: una cifra deludente, ma comunque in linea con gli scarsi risultati di UE e Regno Unito insieme, pari a 75 miliardi. L’Italia, inoltre, non si piazza nemmeno tra le prime quindici posizioni nella classifica dei Paesi con il maggior numero di nuove aziende del settore fondate tra il 2013 e il 2024 e la quota sul totale delle nuove aziende di IA finanziate in Europa nel 2024 è di circa il 4,02%, con appena 18 realtà sulle 447 del continente. Su scala globale, di conseguenza, la percentuale scende a livelli impalbabili.

Non stupisce, dunque, se né il nostro Paese, né l’Europa sviluppino modelli di IA che possano minimamente intaccare il dominio di aziende come OpenAI, Google, Meta e Microsoft, in un quadro di totale sudditanza da tecnologie e infrastrutture di Washington che, dato il contesto geopolitico, desta qualche preoccupazione. A cosa attribuire, quindi, il nostro ritardo cronico? A un ambiente poco favorevole all’apertura di startup innovative e al capitale di ventura, che ostacola la creazione di un’autentica “Silicon Valley europea”, intesa come un ecosistema fertile per l’accumulo di know-how e l’attrazione di talenti che, al contrario, preferiscono migrare verso migliori lidi terminato il percorso di formazione universitaria. Il quadro normativo italiano, congiuntamente a una pressione fiscale vessatoria, ai ritardi e alla complessità della macchina burocratica, all’inefficienza e all’arretratezza della pubblica amministrazione e alla scarsa certezza del diritto, determina, al contrario, una bassa attrattività per capitali e imprese, ancor più per quelle che necessitano di investimenti ad alto rischio.

Alla luce di queste considerazioni, l’utilità di una legge nazionale, che comporta rischi di sovrapposizioni normative, proliferazione e frammentazione di competenze e autorità di vigilanza e che introduce novità di efficacia esigua rispetto a quanto già stabilito dalla norma comunitaria, appare ridotta e limitata, più che altro, alla semplice ricezione e implementazione dei precetti europei. Il rischio è che il primato regolatorio, come fu per lo stesso AI Act fortemente voluto da Bruxelles, rappresenti una medaglia priva di valore concreto; un tentativo, in sostanza, di rincorrere un’industria che viaggia ben più veloce della legislazione e che sfugge sistematicamente ai tentativi di delimitazione stringenti.

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