Una nazione apparente

Una nazione apparente

A ben guardare, sono gli sconfitti nelle guerre civili coloro che meno si rassegnano alla rappresentazione unitaria di una storia fatalmente scritta dai vincitori. Accade negli Stati Uniti, dove, sulla scia del vecchio Ku Klux Klan, le organizzazioni suprematiste bianche del Sud inneggiano alla retorica Wasp e alimentano il bacino elettorale del trumpismo. E accade in Spagna, dove, sulla scia di Zapatero, il premier Gonzales si è dato l’obiettivo di cancellare tutti i simboli del franchismo e con essi quel che resta di una memoria condivisa.

Accade negli Stati Uniti, dove la guerra di secessione conclusa nel 1865 con la vittoria degli stati del Nord fu seguita da una vera riconciliazione nazionale all’insegna di valori condivisi. E accade in Spagna, dove la guerra civile conclusa nel 1939 con la vittoria dei franchisti fu seguita dalla simbolica tumulazione in un unico sito monumentale, la Valle del los Caidos, dei morti di entrambe le parti. Figurarsi, dunque, se tutto ciò potrebbe non accadere in Italia.

Nell’Italia dove, come ammetteva Massimo D’Azeglio, il sentimento di unità nazionale non si è mai davvero affermato. Nell’Italia dove, come lamentava Lucio Colletti, dal dopoguerra “il concetto di nazione è stato completamente rimosso”. E con esso sono stati lungamente rimossi sia il fascismo in quanto fenomeno popolare sia la guerra civile in quanto trauma nazionale.

Il primo dei due occultamenti fu svelato dallo storico ex comunista Renzo De Felice a partire dagli anni Sessanta. Per svelare il secondo fu necessario attendere il 1990, quando lo storico “democratico” Claudio Pavone diede alle stampe un saggio dal titolo inequivocabile: “Una guerra civile”. Ne risulta una nazione divisa. Divisa perché priva di una memoria condivisa. Una nazione apparente, in cui gli eredi delle due culture autoritarie del Novecento, fascisti e comunisti, hanno potuto affrontare il futuro senza render conto del passato.

«Il fascismo non è stato un semplice incidente della storia, un regime autoritario che governava contro il popolo. Il fascismo ha goduto di un ampio, diffuso, radicato consenso nel paese. Rimuoverlo e cancellare l’analisi veritiera e onesta della sua natura ha reso fragili le basi della nostra democrazia»: non lo ha scritto Giorgio Pisanò, lo ha scritto Walter Veltroni. Ed è vero. Come attesterà, martedì, la prevedibile canea attorno al 25 Aprile, aver rimosso la Storia è servito solo a prolungarne i traumi, rendendo di fatto precarie le basi del nostro sistema democratico. Con la sola differenza che, per dirla col vecchio Marx, le tragedie di ieri si ripetono oggi in forma di farsa. La farsa in cui, a trent’anni dalla svolta di Fiuggi, parte dei quadri dirigenti di Fratelli d’Italia riecheggia ancora i luoghi comuni di un’identità trapassata. La farsa in cui, a quasi ottant’anni dalla sconfitta del fascismo, certa sinistra ne accredita ancora la minaccia. Per non dire, infine, della farsa di chi oggi celebra la resistenza armata dei partigiani italiani mentre ieri ha rifiutato di armare la resistenza dei partigiani ucraini all’invasione dell’unico uomo che ha dato corpo e sostanza storica al fascismo contemporaneo: Vladimir Putin.

Fateci caso, sono gli sconfitti delle guerre civili (e della Storia) i più refrattari al sentimento di unità nazionale. Diversi ex missini, certo. Ma anche diversi ex comunisti ed ex grillini.

 

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