Paolo Mieli: Il principio di realtà rifiutato

Paolo Mieli: Il principio di realtà rifiutato

La vicenda del ponte di Genova e del rapporto con la famiglia Benetton ci rivela in fin dei conti soprattutto una cosa: Giuseppe Conte si sta appalesando come uno dei più straordinari illusionisti della nostra storia. Ipnotizzata la sua (peraltro consenziente) maggioranza, annuncia, dice, si contraddice, rinvia, alla fine poi ricomincia riportandoci al punto di partenza. Non esiste ormai più un solo punto su cui qualcuno nella maggioranza si attenga al principio di realtà. Prendiamo il dibattito sugli aiuti europei (di cui, sia chiaro, dipendesse da noi faremmo richiesta all’istante). Quel che sconforta sono le argomentazioni messe in campo: tali aiuti devono essere donati e, nel caso si configurino come prestiti, va garantito che siano senza «condizionalità». I Paesi che pretenderebbero di ridurne l’ammontare e verificare come quei soldi saranno spesi, vengono descritti come egoisti, avidi e insensibili alla causa europea. Perché insensibili? Per il fatto che – se la Comunità non ci regala quei soldi all’istante o non ce li presta alla maniera che noi pretendiamo – noi non faremo nulla per impedire che vada a monte l’intera costruzione europea. Conta poco che noi quei soldi non sappiamo neanche bene come spenderli. E che probabilmente una parte li butteremo via. L’importante è prenderli.

Fino a quando? All’infinito? Ammesso che fosse ammissibile ragionare in questo modo a marzo, aprile, nell’esaurimento nervoso da crisi pandemica, oggi forse dovremmo definire meglio cosa noi, con le nostre forze, siamo pronti a fare per il nostro Paese oltre a spendere i soldi che riusciremo a farci dare dall’Europa. Al momento non si vede all’orizzonte neanche un’idea di qualcosa che ci imponga di risanare ciò che va risanato. Siamo solo capaci di spendere facendo debito, debito e ancora debito. Un’attitudine che almeno trenta o quarant’anni fa serviva a render saldi gli accordi tra partiti. Oggi non c’è più neanche quello. Nessun’intesa è in grado di reggere. Neanche quelle di impianto etico. Vari ministri avevano annunciato mesi fa che nel caso sulle nostre coste fossero approdati dei migranti li avremmo accolti e parzialmente smistati in altri Paesi (grazie ad accordi internazionali presi dalla ministra Lamorgese). Invece quando questi migranti arrivano, restano tuttora al largo per una decina di giorni con la sola differenza che non ci sono più scrittori o parlamentari che vadano su quelle navi a portar loro conforto. Qualcosa deve essere cambiato nella sensibilità dei soccorritori che si mobilitarono l’estate scorsa. Neanche sulla modifica dei cosiddetti decreti Salvini sembra esserci all’orizzonte uno straccio di intesa. Né su una decina o più di punti che non stiamo qui ad elencare.

Su un solo dettaglio l’accordo tra Pd e Cinque Stelle appare granitico: quello di un sistema elettorale che renda l’attuale stato delle cose immodificabile. Un sistema per fare in modo che sia impossibile per l’elettore scegliere una maggioranza e un programma di governo come tuttora accade per sindaci e presidenti di Regione. Lo scopo è quello di agevolare al massimo i rimescolamenti parlamentari divenuti da tempo l’unica, vera specialità della sinistra italiana. Il tutto accompagnato da spudorate ammissioni del vero motivo per cui si procede in questa direzione: disarticolare l’attuale opposizione e impedirne la vittoria. Qui non abbiamo niente da dire su coloro che negli ultimi quarant’anni sono rimasti coerentemente proporzionalisti.

Ma nei confronti di coloro che ai tempi si iscrissero con giubilo alle grandi tribù del maggioritario, vorremmo suggerire una riflessione in extremis non tanto sul loro cambiamento di idee (le idee si possono sempre, a volte si devono modificare) quanto sulla sospetta unanimità di tale trasformazione. Un fenomeno non nuovo nella storia d’Italia. Che è arduo annoverare tra le caratteristiche migliori della nostra tradizione.

 

 

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