Ohibò, il taglio dei parlamentari ha minato la qualità del lavoro degli eletti

Ohibò, il taglio dei parlamentari ha minato la qualità del lavoro degli eletti

Hanno vinto i cinque stelle. Apriremo il Parlamento come una scatoletta di tonno, dicevano. Missione compiuta. E’ talmente aperto, che tutti scappano. L’antipolitica funziona infatti, ed è il Parlamento a non funzionare più. Da quando è stato ridotto il loro numero, considerato da essi stessi  un costo da mangiapane a tradimento, deputati e senatori disertano con sistematicità il lavoro in commissione, cioè quella cosa che prima dava un senso alle loro giornate da anonimi pigiatasti d’Aula. Prima ne frequentavano una, studiavano, votavano, emendavano. Ma poiché ormai di commissioni costoro se ne devono accollare due o tre finisce che non solo non studiano più, ma devono pure scegliere dove andare. Quindi in genere si assentano (tranne quando si vota e scatta il gettone).

Negli uffici della Camera, invece, dal 2021, cioè da quando è entrato in vigore il taglio degli stipendi, altra mossa plebeista e paragrillina, i dipendenti neo assunti si dimettono a un ritmo mai visto in settant’anni di storia repubblicana. Pare che in molti non avessero capito che i loro stipendi, limati di un buon 20 per cento, non erano più quelli ottimi di chi alla Camera già ci lavorava. Tra i 76 assistenti parlamentari appena assunti a Montecitorio, per dire, in 10 non hanno preso servizio. Dieci su settantasei. Insomma la riduzione del numero dei parlamentari, che doveva portare risparmio, provoca assenteismo e superficialità. Mentre il taglio degli stipendi ai dipendenti (deciso nel 2017 e applicato dal 2021) sta determinando una fuga di giovani dalla macchina burocratica del Parlamento. Erano stati appena assunti 8 tecnici informatici? Se ne sono dimessi in 3.

Si sono dimessi anche 6 segretari parlamentari neo assunti, mentre gli altri hanno avanzato la prima richiesta sindacale: un “permesso studio” al fine di avere tempo di preparare un altro concorso, e salutare la Camera. E infatti due sono le scene paradigmatiche in Parlamento da qualche tempo. La prima è quella del senatore medio, mettiamo Claudio Borghi della Lega, uno a caso, che fa parte di ben tre commissioni. Eccolo mentre si affaccia sulla soglia della commissione Affari europei: “Oggi si vota?”. Gli dicono di no. Niente gettone. E lui: zac, fila via verso la commissione Bilancio o verso il Copasir. Scena numero due. Montecitorio, corridoio. Ecco un giovane commesso che sta curvo sul manuale di diritto pubblico. Sta preparando un concorso. Se ne vuole andare pure lui. Nemmeno Grillo saprebbe spiegarci meglio di così l’effetto della parola “vaffanculo”.

Il Foglio

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