Non viviamo per lavorare? Ma senza lavoro non si vive

Non viviamo per lavorare? Ma senza lavoro non si vive

«Non veniamo al mondo per lavorare o per accumulare ricchezza, ma per vivere. E di vita ne abbiamo solo una». Che bella questa frase che circola sui social media, diffusa da un’autorevole testata, insieme all’immagine dell’autore José Mujica, un caro vecchietto dagli occhi buoni. Un pensiero semplice, che come tutte le frasi belle e semplici esercita un’enorme seduzione. Come non essere d’accordo? Eppure, è un pensiero che può fare del male. In verità, molto di questo male è già stato fatto, nei decenni scorsi, e le ferite sono ancora da rimarginare. Le cicatrici, poi, chissà se scompariranno mai.

Intanto, chi è José Mujica, l’autore di tanta saggezza? Un signore di 80 anni, già presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015 (sì, mica uno qualunque), che negli Anni sessanta aderì al movimento dei Tupamaros e poi, arrestato, trascorse circa 15 anni in carcere, molti dei quali in una cella d’isolamento. Proprio questo isolamento gli causò gravi problemi di salute, specialmente psicologici.

Questa penosa segregazione, che non augureremmo a nessuno, non gli impedì tuttavia di elaborare profonde meditazioni, come questa: «In prigione ho pensato che le cose hanno un inizio e una fine. Ciò che ha un inizio e una fine è semplicemente la vita. Il resto è solo di passaggio. La vita è questo, un minuto e se ne va». Certo non si tratta di pensieri complicati, come egli stesso ammette: «Non sono né un filosofo né un intellettuale. Lo sono stato fino ai 25 anni. Fino a quell’età leggevo di tutto, dalla guida telefonica a Seneca».

Dunque, ricapitolando, negli anni della prigionia, isolato dal mondo e comprensibilmente alienato, ha elaborato cosa suggerire a chi stava fuori a tirare avanti. Per ogni altra attività, questo farebbe sorgere qualche perplessità sulla capacità di conoscere e stare in sintonia con l’oggetto delle riflessioni.

Ma accantoniamo ogni perplessità e pregiudizio per entrare nel merito dell’affermazione centrale. «Quando tu compri qualcosa, non la paghi col denaro, ma con le ore della vita che hai impiegato per guadagnarlo. Con la differenza che la vita è l’unica cosa che il denaro non può comprare. È un peccato sprecare così la vita e la libertà».

Chiedo scusa, ma che significa? Che senso ha opporre la vita al lavoro? Certo che stiamo al mondo per vivere, ma per farlo ci dobbiamo sbattere dalla mattina alla sera. All’inizio lo facevamo per sopravvivere. Secoli e secoli piuttosto grami, tanto che per darci piacere, per darci un senso, inventammo una seconda vita ultraterrena dove ci aspettava la felicità (con buona pace di chi ha pensato che «second life» fosse arrivata con internet). Ma abbiamo tenuto duro, siamo sopravvissuti e anche bene, fino a circa un secolo fa, quando la specializzazione del lavoro e la tecnologia hanno aumentato la produttività (meno sforzo con più risultato) creando il benessere e il tempo libero e con loro la cultura del piacere, ossia i beni voluttuari.

Si badi, è un’opinione, una visione della vita e del mondo, da cui si può dissentire. Certo, uno poi si chiede se il lavoro femminile sia stato o no una conquista. Ma lasciamo perdere le polemiche. Uno può legittimamente scegliere di non lavorare per dedicarsi pienamente alla vita. Lo faccia, con i migliori e più sinceri auguri. Basta che non pretenda, mentre si gode la vita, pure i frutti del lavoro, quello degli altri. Ma a chi riesce anche in questo, e Dio e gli italiani sanno che tanti lo fanno benissimo, va una sola sommessa preghiera: abbiate il buon gusto di non sfotterci con queste belle parole.

Pierluigi Del Viscovo, Il Giornale 22 settembre 2016

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