La singolare conversione “pacifista” di Massimo D’Alema

La singolare conversione “pacifista” di Massimo D’Alema

Si potrebbe indugiare a lungo su Giuseppe Conte, che da presidente del Consiglio aumentò le spese militari e diede il via libera all’acquisto dei cacciabombardieri F35. Ma poiché tutti scorgono in Massimo D’Alema la personalità più autorevole del fronte cosiddetto pacifista, e poiché è stato proprio sulla base di un afflato antimilitarista che l’ex “leader Massimo” si è riavvicinato al Partito democratico, è di lui che occorre necessariamente occuparsi.

“Bisogna cercare una soluzione politica”, dice oggi D’Alema. Il quale accusa la destra di essere “dipendente dagli Stati Uniti” e la sinistra di aver “lasciato alla destra la bandiera della pace”. Altro che mobilitazione della Nato, secondo Massimo D’Alema ogni nuovo scenario ucraino deve necessariamente passare per una risoluzione dell’Onu. Posizioni politiche nette, apparentemente ispirate da convinzioni profonde e principi granitici. Eppure…

Eppure, la prima ed unica volta in cui D’Alema si ritrovò a ricoprire la funzione di presidente del Consiglio non esitò a schierare l’Italia in una guerra cara agli Stati Uniti, con la sola copertura della Nato e senza neanche informare il Parlamento. Non fu un caso. Massimo D’Alema venne, infatti, catapultato a Palazzo Chigi proprio con il compito di consentire alla Nato di muovere guerra alla Serbia di Milosevic utilizzando le basi e la forza militare italiane. Un’operazione politica pianificata da Francesco Cossiga, allora capo di un partitino di esuli del centrodestra, l’Udeur, sulla bella terrazza romana di Valentino Martelli, che poi divenne sottosegretario agli Esteri, assieme all’ambasciatore britannico John Weston e al ministro dell’ambasciata statunitense William Montgomery.

Prodi, ha ricordato Cossiga in un libro del 2010, era stato appena defenestrato da Bertinotti, “agli amici inglese e americano dissi chiaramente che l’unico che poteva mettere in piedi un governo che facesse una guerra solo con la Nato e senza il via libera dell’Onu era il segretario del maggior partito della coalizione che fino a quel momento aveva sostenuto Romano Prodi: Massimo D’Alema”. I rappresentanti di Stati Uniti e Regno Unito accettarono, D’Alema divenne presidente del Consiglio nell’ottobre del 1998, il Ministero degli Esteri fu affidato a Lamberto Dini, il Ministero della Difesa a Carlo Scognamiglio. Due nomi di chiara osservanza americana. Il leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi, assicurò la piena copertura politica alle scelte del governo.

Il 24 marzo del 1999 iniziò, dunque, la campagna militare della Nato contro la Serbia di Milosevic, volta a fermare la pulizia etnica in corso nel Kosovo. Le forze angloamericane e quelle di altri 10 paesi dell’Alleanza atlantica utilizzarono le basi, lo spazio aereo e le acque territoriali italiane. I caccia della nostra aviazione militare effettuarono 1200 azioni, compreso il bombardamento di Belgrado: “535 morti tra vecchi, donne e bambini”, ghignò, diabolico, Cossiga. La tempesta di fuoco durò 78 giorni filati, migliaia di civili furono uccisi, decine di migliaia persero la casa, Milosevic dovette capitolare. Le Nazioni Unite entrarono in scena a conflitto sostanzialmente vinto.

Fu una guerra giusta, ma fu senz’altro una guerra. Una di quelle guerre che oggi fanno inorridire Massimo D’Alema. Lo stesso Massimo D’Alema che di recente ha cercato di fare i soldi vendendo armi alla Colombia e suscitando la seguente reazione del vecchio socialista Rino Formica: “Quando un leader come lui, che ha fatto il segretario del partito nato dal partito di Enrico Berlinguer, da pacifista diventa sensale del commercio delle armi, indipendentemente dall’esistenza di questioni penali, certo dimostra che anche nel Pci vi era una classe dirigente spregiudicata e opportunista”.

La Ragione

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