La giustizia di sant’Alfonso e del marchese del Grillo

La giustizia di sant’Alfonso e del marchese del Grillo

Prima di diventare vescovo, Alfonso Maria de Liguori fu un grande avvocato che non dimenticò mai la umana e diabolica pratica forense e il senso della giustizia che si portò dietro per tutta la vita, sulle spalle e su quel collo storto sul quale scherzava dicendo che era così storto perché ci aveva sopra il peso del Taburno (dal nome del massiccio montuoso, caro a Virgilio, che vedeva affacciandosi dalle finestre del palazzo vescovile di Sant’Agata dei Goti).

Il sant’uomo a proposito di giustizia, giudici e imputati diceva una cosa che suona pressappoco così: il giudice deve assolvere l’imputato quando sa che è colpevole ma le prove processuali dicono che è innocente e deve ancora mandarlo assolto quando le prove processuali dicono che è colpevole ma lui sa che è innocente.

Infatti, Alfonso sapeva molto bene che di mezzo in tali faccende c’è sia il destino dell’imputato sia la credibilità del giudice e della stessa giustizia. Della quale il marchese Onofrio del Grillo – nel famoso film di Mario Monicelli con Alberto Sordi nei panni dell’aristocratico romano –proclamò la morte col far suonare tutte le campane di Roma e facendo così infuriare Pio VII, interpretato da un inarrivabile Paolo Stoppa.

Perché ricordo questi fatti, questi uomini e queste idee? Perché mi pare che il sistema giudiziario italiano sia più vicino allo scherzo da prete del divin marchese – che corruppe facilmente i magistrati per far condannare l’innocente falegname Aronne Piperno – piuttosto che alla saggezza giuridica di de Liguori.

Capovolgendo la frase del santo, infatti, si può dire che in Italia le cose funzionino così: l’imputato potrà essere colpevole ma se le carte staranno a posto andrà assolto; viceversa, ed è il caso grave, l’imputato potrà essere innocente ma se le carte non staranno a posto andrà condannato. È la posizione diametralmente opposta a quella auspicata dal vescovo-avvocato autore della celeberrima “Tu scendi dalle stelle” o, meglio, “Quanno nascette Ninno”.

Tutte queste cose mi sono salite dal cuore alla mente leggendo il volumetto di Ettore Randazzo – avvocato penalista e presidente dell’Unione delle Camere Penali – “La giustizia nonostante” (Sellerio), soprattutto là dove dice che bisogna eliminare dal processo «i refusi secolari di un sistema inquisitorio che ha relegato il difensore in un cantuccio» mentre il pubblico ministero è come assiso in trono. Una disparità che non è solo processuale ma anche culturale e fa sì che nel sistema italiano non vi siano errori giudiziari ma solo verità, anche quando sono false.

La Ragione

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