Il sogno che manca all’Europa

Il sogno che manca all’Europa

Povera Europa, trincea estrema dei diritti, delle regole e delle garanzie, oggi così frastornata e genuflessa. Irriconoscibile. A Bruxelles ho visto la notte d’inverno inghiottire il gigantesco palazzo dell’Unione mentre per strada sciami di lobbisti e funzionari andavano in cerca dell’aperitivo. C’erano l’industria farmaceutica, i rappresentanti del gas e del carbone, i venditori di software. Mancava il sogno. Era assente quell’affascinante profumo di diversità che fiutavo già da bambino, a Trieste, nelle ninne nanne in tedesco della nonna, nella nostalgia dei profughi istriani e dalmati, nel confine alle porte di casa e nella quotidiana intimità col mondo slavo…

Per una vita non ho fatto che cercarti, Europa. Ti ho viaggiata per mare e per terra, a piedi e su treni d’inverno, dall’Atlantico all’Egeo, dall’Artico a Odessa, da Trieste a Kiev e Mosca, e da Berlino a Istanbul. Mi sono affacciato dai Carpazi sulla pianura dove il Sole arriva dagli Urali, ti ho seguita lungo il luccichio del Danubio, del Niemen e del Guadalquivir. Dall’Irlanda alla Turchia, ho bussato ai monasteri che ti hanno salvata dalla devastazione barbarica. Ho esposto la tua bandiera, ti ho dedicato libri. Dalle Alpi alla Sicilia, mi sono sfinito per narrarti, nelle piazze, nelle scuole e in compagnia di un’orchestra sinfonica di giovani, stupendi figli tuoi, venuti da Italia, Inghilterra, Austria, Russia e altrove.

Mai ho trovato nel mondo un concentrato di diversità paragonabile al tuo. Ma ora dove sei finita? Nessuna comunione di popoli può reggere in assenza di un epos delle origini. Le regole e i programmi non bastano. Per questo, quando anche il sogno è perduto, non resta che il mito. E per questo ho scritto Canto per Europa: per attivare una narrativa nuova partendo da una storia più antica e radicale di quella dei padri fondatori. Un ancoraggio su cui costruire un patriottismo comune capace di combattere la deriva verso la frammentazione. Europa è «il sogno di chi viene respinto», commenta uno dei protagonisti della storia, intuendo che l’utopia della Terra del tramonto vive più nel cuore stremato dei migranti che in quello dei popoli dell’Unione. Egli sa che in quelle genti in fuga cova un desiderio disperato e lancinante, un “Mal d’Europa” per certi aspetti simmetrico al “Mal d’Africa” che può esistere in alcuni occidentali.

Ma ecco come tutto è cominciato. Era una notte, a Santa Maria di Leuca, dove Jonio e Adriatico si toccano spumeggiando ai piedi di un grande faro. Una chiatta di migranti era naufragata e, alla luce delle fotoelettriche, un sacco bianco era stato deposto sul molo da una motovedetta. Conteneva, mi dissero, il corpo di una somala incinta, una di molte donne annegate, forse scaraventate tra le onde dagli scafisti. Accanto a quel corpo, un uomo in piedi, un ciclope possente, in lacrime come un bambino. Un palombaro, che aveva conosciuto il peggio del mare, un testimone di questo Mediterraneo mattatoio e cimitero. Cosa aveva visto per piangere a quel modo? Da allora, la donna senza volto cominciò a svegliarmi, notte dopo notte. Chiedeva di avere un nome, una storia. Era il gennaio del 2016. Non ebbi pace finché, nel luglio dello stesso anno, in Sicilia, vissi una nuova epifania. Centinaia di profughi stavano sbarcando da una nave di soccorso a Porto Empedocle. Venivano da Siria, Egitto, Afghanistan. Erano stati al largo più di un mese, rifiutati da tutti. Scendevano barcollando da una passerella con addosso dei salvagente gialli. La nave emanava puzza di vomito e cherosene. Le donne, una dozzina, quasi tutte siriane, furono separate dagli uomini e condotte su uno spazio di banchina casualmente coperto da un grande telo turchino. Lì si sedettero in cerchio, come per condividere ritualmente, guardandosi negli occhi, la solennità del momento.

Fu un tuffo al cuore. Il cerchio giallo in campo blu disegnava la mia costellazione, la bandiera dell’Unione. E proprio in quell’attimo una delle donne cominciò a cantare, a bassa voce, un’incantevole nenia d’Oriente che al mio orecchio parve esprimere il dolore della patria perduta e insieme la speranza di un mondo nuovo. La giovane avrà avuto vent’anni. I capelli neri tagliavano come un’ala di corvo un profilo semita affilato che sembrava separare due facce di una stessa moneta. Una era dolce, materna; l’altra esprimeva la durezza della volontà. Un’ambivalenza che riassumeva il mistero del Femminile. La ragazza siriana, che aveva attraversato il mare con paura, dava un’identità alla donna del sacco bianco. Una faccia, una voce, un nome. Come avevo fatto a non accorgermi che il mio continente era femmina, come l’Asia o l’America? Tutta colpa di un inutile articolo. Bastò toglierlo, bastò dire ad alta voce “Europa”, anziché “l’Europa”, e la terra dei miei avi si fece carne. Apparve per ciò che era: una creatura da difendere, non più un brandello di carta geografica. Così riletta, generava un nome proprio, innescava una narrazione, creava un legame, un’appartenenza. Quella che si accende in alcuni di noi quando siamo lontani da casa o quando ci accorgiamo di quanto difficile e precaria sia la vita nel resto del mondo.

Non avrei più dimenticato quella piccola migrante. Mettendomi di fronte al destino di un continente fatto di popoli venuti da lontano, essa reincarnava il mito della principessa fenicia di nome Europa, rapita da Giove-toro e traghettata a forza verso il grande capolinea della notte. A Porto Empedocle capii che la donna, non il dio stupratore, era la protagonista di quella storia. Essa svelava l’essenza femminile del nostro mondo assediato da bellicose autocrazie maschiliste, e la nostra discendenza da una creatura d’Oriente, portatrice di sangue nuovo. Chiariva che il nostro legame con l’Asia era indissolubile e l’unico nostro vero confine stava a ovest, sul grande nulla dell’oceano. Confermava la nostra appartenenza al Mediterraneo, il mare della complessità, dove erano nate la democrazia, la filosofia e la tutela dei diritti. Un mondo baciato dalla fortuna, benedetto da un dio sceso tra i mortali per farsi carne in una donna.

La gente ha sete di senso, di storie. La spasmodica attenzione che esprime quando le racconti il mito denuncia il vuoto narrativo in cui è abbandonata dalla politica e dalle istituzioni. È magnifico vedere centinaia di occhi accendersi quando spieghi che l’Occidente siamo noi, non l’Oltreoceano, perché “Europa” deriva da “Erebu”, parola dell’accadico, antica lingua mesopotamica, e vuol dire “Terra del tramonto”, il luogo dove si inabissa il firmamento; oppure quando ricordi il pensiero che Eschilo espresse dopo la vittoria dei suoi Greci sull’Asia persiana: «I vincitori si salveranno solo se sapranno rispettare i templi e gli dei dei vinti».

Europa è il Partenone che non viene distrutto, ma che da tempio diventa chiesa, poi moschea e poi museo. È civiltà costruita sulle colonne dei vinti. È la tragedia greca che rappresenta il dolore degli sconfitti (vedi la tragedia I Persiani) come le indegnità dei vincitori (vedi l’Iliade, dove gli Achei massacrano donne e bambini a Troia). È una cultura che non nasconde la bestia che è in noi, al contrario della propaganda ipocrita che oggi spaccia per ethos il diritto brutale del più forte. Europa è la generazione immensa dei primi monaci benedettini che, senz’armi, cristianizzano milioni di barbari. È Enea — eroe asiatico come Europa —sconfitto, che fugge da Troia distrutta col padre sulle spalle e il figlioletto per mano, diventa migrante e, attraverso Roma, fonda una potenza continentale dove gli imperatori saranno anche spagnoli, africani, illirici.

Perché le nazioni si imbevono di miti e l’Europa no? In questo vuoto ci ritroviamo soli e balbettanti sul baratro di un mondo virtuale che ci distoglie da una realtà di saccheggio e cinismo. Il paradosso è che, oggi, i popoli dell’Unione si conoscono tra loro assai meno di quando esistevano i confini.

La Repubblica

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