Il Palamento legiferi sul fine vita

Il Palamento legiferi sul fine vita

Niente di straordinario, è stata solo «una risposta civile ad una cittadina che chiedeva di poter gestire il suo fine vita in modo libero e consapevole». Così il governatore del Veneto, il leghista Luca Zaia, ha spiegato la decisione della giunta che presiede di accompagnare alla morte una malata oncologia terminale, Gloria. «Noi – ha detto – abbiamo semplicemente dato attuazione ad una sentenza della Corte costituzionale, quella che nel 2019 si è espressa sul caso del dj Fabo». Quella sentenza denunciava un vuoto legislativo e incoraggiava il Parlamento a colmarlo. Mai incoraggiamento fu più vano: il Parlamento è rimasto inerte sul delicato tema del fine vita, delegando così a regioni e magistratura il potere legislativo che la Costituzione gli attribuisce in via esclusiva.

Difficile andare avanti così. Difficile perché l’età media si allunga ma non per questo si accorcia la lista delle patologie gravi e invalidanti che affliggono uomini e donne soprattutto in età avanzata.

In «Utopia», riflettendo sulla condizione del malato grave inguaribile, Tommaso Moro esorta «sacerdoti e magistrati» ad accettare che quando «il vivere è diventato per lui una tortura, sia anzi lui stesso, animato da serena fiducia, a liberarsi di sua mano di quell’esistenza penosa come da una prigione o da un supplizio, oppure a consentire di sua volontà che siano gli altri a strapparnelo». Nel Cinquecento, il cattolico Tommaso Moro, beatificato da Leone XIII nel 1889, proclamato santo da Pio XI nel 1939 e dichiarato patrono dei governanti e dei politici da Giovanni Paolo II, non poteva sapere che un giorno la scienza medica e la tecnica applicata alla medicina avrebbero consentito a milioni di persone di allontanare la morte senza per questo poter riguadagnare la vita. È sgradevole ammetterlo, ma se anche Dio o il destino ci eviteranno malattie o traumi gravemente invalidanti, sappiamo che trascorrere l’ultima fase della vita immobilizzati su un letto senza la speranza di poterci un giorno alzare e/o attaccati a una macchina senza la possibilità di affrancarcene è quello che accadrà a buona parte di noi. E allora sarebbe giusto che chi non ce la fa più potesse sottrarsi a un dolore senza fine e sarebbe caritatevole che altri potessero eseguire la sua libera volontà nel caso in cui non si trovi nella condizione di attuare i propri propositi da solo. Ma, questo è il convincimento di chi scrive, solo in questo caso. Chi è in grado di darsi la morte, ma non lo fa, non dovrebbe poter delegare un’azione per cui non è evidentemente pronto; chi non è fisicamente in grado di darsi la morte, ma è condannato a sopravvivere in un limbo della vita, ha il diritto che la sua volontà sia doverosamente rispettata.

È per questo che due anni fa non ho firmato il referendum promosso dai radicali. Perché depenalizzava indistintamente l’omicidio del consenziente, di fatto tendendo all’introduzione in Italia del modello eutanasico olandese. Un modello a mio giudizio eccessivo, che sottrae la persona alle proprie responsabilità e presenta il rischio di pericolose degenerazioni. Mi fermerei un po’ prima, ma sempre in linea con il pensiero di San Tommaso Moro. Pensiero su cui la Chiesa e i parlamentari “cattolici” farebbero bene a riflettere.

Rispetto profondamente la sensibilità di chi rifiuta l’eutanasia per sè e per i propri familiari, ma sono convinto che rispettare la sensibilità di chi la pensa diversamente sia una scelta pienamente liberale e, lo dico con rispetto, di carità cristiana. È una questione, come ha correttamente detto Luca Zaia, «di civiltà».

Huffington Post

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