Il Demente collettivo

Il Demente collettivo

Negli ultimi due decenni è diventato di moda prendersela con l’egemonia americana, parlare derisoriamente dell’eccezionalismo americano, ridicolizzare la funzione autoproclamata dall’America di ‘polizia mondiale’ e aspirare a un mondo multipolare. Bene, congratulazioni: ora quel mondo ce l’abbiamo. Dite voi se è migliore dell’altro”. Sono parole di Noah Smith, da un testo di Substack, citate finalmente anche sul New York Times da un analista, David Leonhardt, di parte liberal. Devono aver intuito, con qualche vent’anni di ritardo, che i neoconservatori non avevano tutti i torti. Il risultato del ripudio della loro dottrina sul nuovo secolo americano, e del leading from behind che ha prevalso sia con Obama sia con Trump, è sotto i nostri occhi: la più cruenta guerra europea dopo la Seconda guerra mondiale, l’aggressività della Cina nell’Indo-Pacifico, il nazionalismo indiano, la drammatica radicalizzazione del conflitto tra Israele e Hamas in linea con Hezbollah e la Teheran dei mullah, con il bel recente fatto delle centinaia di migliaia di morti in Ucraina e di un numero di ammazzati, civili indifesi, giovani che ballavano, vecchi e bambini, e rapiti, che in rapporto alla popolazione israeliana, per tacere del resto e della memoria, è come se il terrorismo islamico a Parigi avesse fatto quattro, cinquemila morti.

Il Demente Collettivo è convinto che la colpa sia degli americani, dei neoliberisti, del capitalismo, della globalizzazione dei mercati, del passato coloniale europeo, dell’imperialismo americano cosiddetto (che non è mai esistito), della guerra in Iraq o in Afghanistan, della risposta all’11 settembre che ora ritorna in forme nuove, e naturalmente del sionismo, dei governi israeliani, dell’occupazione e dell’estremismo parolaio dei sostenitori della colonizzazione in Cisgiordania, la colpa è di tutto e di tutti tranne che dell’occidente che ha rinunciato alla logica unica possibile, quella di riscrivere nel segno della democrazia e della libertà, del nation building contro il dilagare degli stati canaglia, la mappa mondiale. E ci stavamo anche per far fottere la Nato, se non ci avesse pensato Putin, ma a quale costo si sa, a ridarle vita. Gli accordi di Dayton che misero fine al carnaio dei Balcani, l’eliminazione di Saddam e dei talebani, il contenimento a est delle ambizioni neoimperiali della Russia, la resistenza alle ambizioni nucleari del mostruoso regime degli ayatollah, l’isolamento esistenziale della caserma mortifera di Kim Jong Un, la guerra asimmetrica al terrorismo urbano nell’Europa occidentale: le poche cose buone furono fatte come espansione e eco di una stagione di reattività occidentale che abbiamo voluto spegnere nell’ovatta di presunte convenienze di pace, per incrementare la multipolarità ritenuta necessaria in un mondo ora disceso nel caos più completo.

L’Iran ora fa asse con Mosca e la Corea, mentre il retroterra africano del medio oriente, dove l’assadismo è stato premiato dalla resa di Obama e dagli sparacchiamenti ineffettuali del Trumpshow, è in una situazione disperata.

Litighiamo su patti monetari e immigrazione mentre la guerra è letteralmente alle nostre porte in dimensioni mai viste prima, e le quinte colonne del nemico progrediscono a ogni elezione per svuotare la democrazia con le sue stesse armi. Al centro di questo bel capolavoro sta dunque la rinuncia. La rinuncia a isolare e abbattere la quasi cinquantennale teocrazia di Teheran, direttamente implicata nei disegni di destabilizzazione più pericolosi dell’epoca, e noi qui a obiettare sulle mani pulite di Bin Salman, un ceffo regale che esprime comunque un paese che ha contratto da decenni l’ambiguo patto del denaro e delle riserve petrolifere con l’occidente, quello che Lyndon Johnson avrebbe chiamato un figlio di puttana sì, ma il nostro figlio di puttana. Moralismo, antiamericanismo, sussiego vecchia Europa, antisemitismo nella forma dell’antisionismo, odio e boicottaggio per Israele, mitizzazione della sua destra osservante e fanatica, sono le componenti decisive della ritirata, che apre il grande vuoto riempito dalla baldanza della guerra e del terrore, dell’assassinio e del martirio delle democrazie. Finché Ali Khamenei, la sua polizia morale che fa strage di donne e di civiltà, i suoi servizi che tessono la tela fino alla propaggine di Hamas, con l’ausilio dei dollari qatarioti, finché questi saranno al potere, speranza non c’è. Almeno lo si sappia, nel giorno in cui giustamente ci si ritrova per manifestare solidarietà e amore a un popolo che si batte per esistere e che gli aguzzini hanno aggredito con spavalderia e inaudita certezza del successo a cinquant’anni dalla guerra del Kippur.

Il Foglio

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