I falsi argomenti del “si” bastano per votare “NO”! Ma ci vuole anche un po’ di storia costituzionale

I falsi argomenti del “si” bastano per votare “NO”! Ma ci vuole anche un po’ di storia costituzionale

Chi ha promosso e votato la riduzione dei parlamentari e ora, al netto dei pentimenti via via crescenti, ancora sostiene il SI, motiva le sue convinzioni con tre argomenti.

La prima motivazione, per la verità la meno nobile (anche per la sceneggiata populista e piuttosto volgare del taglio delle. “poltrone”) è quella di un presunto risparmio che secondo i sostenitori del “taglio dei parlamentari” ammonterebbe a 90 milioni l’anno, e quindi quasi mezzo miliardo per l’intera legislatura; di questa favola ha già fatto sommaria giustizia Carlo Cottarelli, dimostrando che il risparmio, dedotte le imposte comunque restituite allo Stato, si ridurrebbe a circa 57 milioni l’anno, pari allo 0,007% della spesa pubblica, quasi un euro per italiano, che potrebbe così teoricamente pagarsi un caffè in più ogni anno, forse qualche centesimo in più se si escludono i neonati ai quali il caffè farebbe male.

La seconda motivazione, più seria ma altrettanto infondata – sul cui scivoloso specchio ha provato ad arrampicarsi anche qualche eminente personalità, nello stupore di quasi tutta la comunità scientifica– è quello secondo cui quello italiano sarebbe oggi in Europa il parlamento col migliore rapporto di rappresentatività rispetto alla popolazione, quando invece gli uffici studi di Camera e Senato (dossier 71-06 del 2019 e 280 del 2020) hanno evidenziato che nella graduatoria dei paesi UE, l’Italia si colloca al 24° posto su 28, e domani ne diventerà il fanalino di coda.

La terza motivazione è che un minore numero di parlamentari renderebbe più efficiente il lavoro di deputati e senatori e migliorerebbe la qualità del lavoro legislativo e del controllo sull’attività di governo, e viene sostenuta con affermazioni tanto stentoree quanto prive della benché minima dimostrazione concreta, una vera e propria petizione di principio.

Essendomi occupato più volte delle prime due motivazioni, tanto palesemente false che da sole basterebbero per indurre a votare NO al referendum, proverò ora a occuparmi anche della terza, e per farlo utilizzerò qualche riferimento storico e qualche numero, allo scopo di rinfrescare la memoria a chi mostra di averla perduta, e di far conoscere qualcosa in più a chi non s’è mai preoccupato di studiare un po’ prima di parlare e trinciare giudizi.

Fatto sta che sino a ora nessuno si è chiesto il come e il perché si sia giunti alla determinazione del numero attuale dei parlamentari, che la Costituente aveva stabilito in numero variabile (1 deputato ogni 80.000 cittadini, 1 senatore ogni 200.000), e che poi con legge costituzionale n. 2 del 1963, in vista delle elezioni di quell’anno, stabilì nel numero fisso di 630 per i deputati e di 315 per i senatori.

Nella prima Legislatura, quella eletta nel 1948, la Camera risultò composta da 573 deputati, e nella Legislatura successiva il numerò lievitò a 580, e in quella eletta nel 1958 a 596, mentre alla vigilia delle elezioni del 1963, sulla base del censimento del 1961 che aveva censito una popolazione di 50.623.569 cittadini, si sapeva che, applicando i parametri stabiliti dalla Costituente, i deputati sarebbero comunque diventati 634 per cui la riforma del 1963 non fece altro che prenderne atto, anzi riducendo un po’ quel numero.

Ed è qui appena il caso di osservare che, essendo la popolazione italiana già oggi di 60.483.973 (cfr. dossier 280-2020 Ufficio Studi Senato, pag. 48), alla scadenza naturale di questa Legislatura nel 2023, dopo il censimento del prossimo anno, se fosse ancora vigente quel parametro originario (un deputato ogni 80.000) la Camera ne avrebbe oggi almeno 756, se non di più.

La riforma riguardò quindi essenzialmente il Senato, che vide la sua durata ridotta da sei a cinque anni, come per la Camera, mentre, quanto alla sua composizione, il parametro fissato dai Costituenti aveva portato il Senato della prima Legislatura (1948-1953) a essere composto da appena 237 componenti elettivi e da circa 113 membri di diritto, nominati in forza della III disposizione transitoria della Costituzione; e fu solo con l’apporto dei senatori di diritto che in quella Legislatura si poté assicurare  la funzionalità della seconda Camera.

La questione cominciò a complicarsi a partire dalla seconda Legislatura (1953-1958), quando, venuta a cessare quella transitoria integrazione, il Senato si trovò a operare con soli 243 membri elettivi (oltre 8 a vita), e si pose subito il problema della difficoltà di operare con numeri così ristretti, che rendevano problematica la partecipazione dei senatori ai lavori delle 11 commissioni permanenti di allora

E fu da qui che nacque l’esigenza di implementare adeguatamente il numero dei componenti elettivi, una discussione politica che si trascinò per tutta la seconda e la terza legislatura, sino all’approvazione di quella che sarebbe stata la legge costituzionale n. 2-1963, il cui testo unificato era stato frutto dell’iniziativa legislativa del Governo e del sen. Luigi Sturzo, poi deceduto nel corso dei lavori, e che per la verità avrebbe voluto una riforma ancora più ampia.

Di questa esigenza si fecero portatori tutti i gruppi parlamentari, dai comunisti sino agli ex fascisti, consapevoli che con quei numeri il Senato non avrebbe potuto assolvere compiutamente ai compiti di seconda Camera Legislativa della Repubblica, con poteri e compiti assolutamente eguali a quelli dell’altra Camera.

Se ne può trovare una traccia evidente nella discussione che si svolse nell’Aula del Senato il 16 gennaio 1962, quando venne approvato in prima deliberazione il testo unificato esitato dalla Commissione Speciale incaricata della questione (presieduta da due senatori a vita, prima Enrico De Nicola e poi Giuseppe Paratore)  che proponeva la riforma degli articoli 57, 59 e 60 della Costituzione, proprio quelli che sono stati ora modificati in minus dalle Camere di questa Legislatura e che gli italiani saranno chiamati a bocciare o confermare il 20 e 21 settembre.

L’esigenza dell’aumento, condivisa da tutti i gruppi, venne allora evidenziata nell’unico intervento fatto in discussione generale dal socialista sen. Barbareschi, il quale ebbe a dichiarare che “il lavoro nostro si svolge specialmente nelle Commissioni, ed è indubbio che con 230 senatori (in effetti, all’inizio della III Legislatura i senatori eletti erano 243 + 8 a vita n. d. a.), la formazione di 11 commissioni comporta una tale riduzione del numero dei componenti di ciascuna di esse, che ben pochi colleghi possono essere presenti alle varie deliberazioni man mano adottate dalle commissioni stesse, mentre in generale il lavoro che vi si svolge diviene faticoso e spesso faticosissimo… Dunque il compito degli attuali componenti delle Commissioni si rivela difficile e quasi

E il ministro di Grazia e Giustizia Gonnella, intervenuto dopo il relatore, ebbe a manifestare la sua condivisione circa “l’opportunità di aumentare il numero dei senatori per le ragioni funzionali che sono state ampiamente illustrate e che sono a conoscenza degli onorevoli senatori”.

Nell’occasione, la proposta inizialmente esitata era stata quella di calibrare il rapporto parlamentari/popolazione in modo che i deputati, confermando quello di uno ogni 80.000 (o frazione superiore a 40.000), non fossero comunque più di 600, e i senatori, nel nuovo rapporto di uno ogni 180.000 (o frazione superiore a 90.000), non fossero comunque più di 300.

La Camera non condivise tale impostazione e, tenuto conto che i deputati eletti nelle successive elezioni sarebbero stati comunque più di 630, optò per la scelta di questo numero fisso per la Camera e di 315 per il Senato, in termini poi confermati nelle seconde deliberazioni di entrambe le Camere.

È interessante in proposito, anche ai fini del dibattito di oggi, quanto ebbe a dichiarare nella seduta del 21 settembre 1962 (proprio il giorno conclusivo del prossimo referendum) il Ministro di Grazia e Giustizia di allora, Giacinto Bosco, dicendosi “sempre convinto che un’Assemblea legislativa dell’importanza della nostra, da un momento all’altro, cioè dal passaggio dalla 1a alla 2a Legislatura, fosse privata di 107 (in effetti erano stati all’inizio 113, n. d. a.) suoi componenti, mentre restavano immutate le alte funzioni dell’Assemblea stessa”, e infine tributando un doveroso omaggio alla “tenace, appassionata opera ….. del Presidente De Nicola, che fin dal 1951 istituì una Commissione di studio per l’integrazione del Senato, del Presidente Merzagora, che in questa come nella precedente Legislatura si è adoperato efficacemente per la risoluzione del problema, del Presidente Paratore, che ci ha sempre autorevolmente sorretto con i suoi saggi consigli, e che è riuscito a superare tutti i contrasti politici …  facendo anzi confluire sull’attuale testo i consensi unanimi dei Gruppi parlamentari”.

E poi proseguì: “Ma l’albo d’onore di questa riforma non sarebbe completo se non ricordassi, … , anche il senatore Sturzo, il cui nome è presente in quest’Aula non soltanto sul frontespizio del disegno di legge, ma soprattutto nei nostri cuori; e se non ricordassi altresì l’onorevole Alcide De Gasperi che, durante i suoi lunghi anni di Governo non mancò mai di incoraggiare ed assecondare gli studi per l’integrazione del Senato”.

E quando la riforma giunse all’esame della Camera per la seconda deliberazione, tutti gli oratori intervenuti ebbero cura di rammentare qual era stato e qual era lo scopo principale della riforma, quello cioè di assicurare la funzionalità del Senato, che l’esperienza (tanto per intenderci, il metodo sperimentale tanto caro a qualche sostenitore della riforma di oggi) aveva dimostrato essere messa a rischio proprio dalla sua ridotta composizione.

Chi volesse approfondire la questione, ne potrebbe trovare traccia negli interventi in Aula dell’on.  Tozzi Condivi, quando, nella sua relazione del 04 agosto 1962, affermò che “L’aumento doveva essere portato a un limite tale da rendere l’Assemblea di Palazzo Madama in condizioni di poter svolgere il pesante lavoro”, e nel successivo intervento del 07 agosto affermò che “Ci siamo trovati dinanzi a una necessità, la cui considerazione aveva animato tanto il disegno di legge quanto la proposta Sturzo, quella che il Senato potesse funzionare”, insistendo sul fatto che la riforma “aumenta il numero dei senatori a 315 per consentire alla Camera alta di funzionare agevolmente”.

Toccò poi al Ministro Bosco, di concludere la discussione di quella seduta, affermando tra l’altro che “tutte le norme regolamentari che fatalmente devono riferirsi al numero dei componenti, partono dal presupposto di un numero di senatori superiore a 300e il disegno di legge soddisfa anzitutto l’esigenza dell’integrazione del Senato, elevando il numero dei senatori elettivi da 247 a 315, cioè un numero fisso pari alla metà di quello dei deputati … poiché i risultati del censimento della popolazione dell’ottobre 1961 hanno già elevato a 630 il numero dei deputati per la prossima Legislatura ”.

Penso di avere sufficientemente dimostrato che i numeri attuali di deputati e senatori non sono nati dalla fantasia dei legislatori di allora o dalla loro volontà di aumentare le opportunità elettorali della politica, ma da reali esigenze di funzionalità, che oggi, semmai, sono ancora maggiori, per via della bulimia dovuta alle infinite leggi-provvedimento di oggi, fatte di decine di migliaia di articoli e commi, cui le nuove tecnologie digitali possono apportare un rilevante supporto tecnico, giammai d’intelligenza e di capacità politica.

Penso che chi ha avuto la pazienza di leggere questa nota sin qui, potrà agevolmente paragonare la statura istituzionale e la credibilità politica dei riformatori di allora e di quelli di oggi, e trarne magari occasione di qualche riflessione che induca a fidarsi più di “quelli di prima”, tanto per parafrasare un’espressione oggi in voga, indirizzando un garbato, ma fermo, “NO, grazie”, agli attuali supponenti riformatori che ci propinano le loro false motivazioni come nuove leggende metropolitane.

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