I 3 grandi guasti prodotti dal ’68

I 3 grandi guasti prodotti dal ’68

In attesa di festeggiare i suoi 50 anni, Marco Gervasoni, traccia un ritratto impietoso del ’68. Per il docente e componente del Dipartimento storia e filosofia della FLE, i danni più gravi riguardarono a) istruzione, b) politica, e c) mentalità

Ancora non è cominciato e già il cinquantesimo compleanno del ’68 si annuncia come un Carnevale di canuti reduci e di nostalgici. In Francia, addirittura, il presidente Macron, pure nato quasi dieci anni dopo, proclama che la République festeggerà il Maggio, come fa regolarmente con la Rivoluzione del 1789.

Ma i motivi di giubilo, almeno da noi, francamente ci sfuggono.

Il ’68 per quello che portò di positivo al Paese, fu per lo più inutile. In cambio, ha distrutto quanto vi era di solido, lasciando calcinacci e macerie senza contribuire a ricostruire nulla: buona parte dei guasti di cui paghiamo pegno oggi sono figli di quella stagione.

Il ‘68 è stato inutile, o al più superfluo perché, a quel poco o tanto di libertà, di diritti individuali e di equità sociale introdotto in Italia, saremmo comunque arrivati anche senza il contributo della «contestazione».

Lo scenario

Il Paese che precedette il ’68 non era infatti un regno di tenebra della reazione: governava il centro-sinistra, con Aldo Moro premier e Pietro Nenni suo vice. E numerose riforme, dal divorzio allo Statuto dei lavoratori alle leggi per il Welfare, erano in discussione in Parlamento già da tempo.

Semmai la spinta delle piazze le affrettò rendendo però quelle misure più radicali, quindi dannose per la tenuta, soprattutto dell’economia. Per dotarci di un pacchetto di leggi che sarebbero state introdotte egualmente, fummo sconvolti da tensioni e da scontri che, diversamente dagli altri paesi percorsi dalla contestazione, durarono quasi senza soluzione di continuità per più di un decennio.

I risvolti

All’insorgenza dei movimenti studenteschi non seguì infatti una adeguata reazione da parte dei governi, come invece fecero Richard Nixon negli Usa, Georges Pompidou in Francia, e persino il socialista Willy Brandt in Germania occidentale.

Anzi gli stessi esecutivi, sempre retti dall’alleanza tra democristiani e socialisti, concessero tutto o quasi ai movimenti: stimolando così la crescita sempre nuova di agitatori che reclamavano più «giustizia», in sostanza maggiore spesa pubblica. Proprio nel momento in cui, denunciava inascoltato il governatore della Banca d’Italia, Guido Carli, il Paese era già uscito dalla fase di crescita impetuosa e si stava impennando pericolosamente il debito pubblico. La carica tellurica dei movimenti del ’68 non risparmiò nessun ambito della vita civile, politica e sociale dell’Italia.

I danni più gravi però secondo noi furono prodotti in tre universi: quello dell’istruzione, quello della politica, e quello che genericamente si può definire delle mentalità. La scuola italiana negli anni Sessanta aveva bisogno, più che riforme, di aggiustamenti, necessari a un paese diventato una società di massa. Ma il suo corpo era sano, da quello elementare fino all’Università.

La legge

Proprio degli atenei il governo Moro stava predisponendo una legge, detta Gui dal nome del ministro dell’Istruzione, che ancora oggi appare ottima ed equilibrata. Ma che fu affossata dalla convergenza tra le corporazioni dei baroni e i movimenti, che vi si opposero violentemente occupando le Università già nel 1966.

Dopo aver ritirato il disegno Gui, il potere politico non fu più in grado di elaborare nulla di sensato per molti anni nel campo dell’istruzione, che divenne terreno di scorribanda di tutti gli estremismi e dell’egualitarismo sindacale; e corridoio di penetrazione del Partito comunista, che vide nel personale della scuola, fino a quel momento clientela democristiana, un nuovo bacino elettorale a cui attingere, naturalmente facendosi paladino di tutte le richieste corporative.

La rovina più grave però fu arrecata all’autorità del docente: nella scienza e nell’istruzione non può esservi democrazia, e invece i contestatori affermarono, in maniera per lo più violenta, l’idea che la parola del docente vale quanto, se non meno, quella degli allievi.

Difficile non vedere il preludio dei nostri tempi in cui gli esperti sono sbertucciati, e il parere di un medico sui vaccini conta quanto quello di un semi-analfabeta dotato di tastiera e di follower.

Il risvolto politico

Il secondo disastro il ‘68 lo produsse in politica: i movimenti furono la palestra dei terroristi che insanguinarono l’Italia, mentre il disordine paralizzò partiti e istituzioni già poco inclini a prendere decisioni. La classe politica che si formò negli anni seguenti al ‘68, anche quando non proveniente dal «movimento», si adeguò al clima; mentre democristiani patteggiarono quasi tutto con i contestatori, i comunisti cercarono di inglobarli, come fecero i nipotini di Berlinguer che poi dagli anni Novanta avrebbero governato l’Italia. Vinse così il pan politicismo, l’idea perniciosa che «tutto è politica».

La mentalità

Il vulnus più grande il ‘68 l’ha inferto però alle mentalità. Se la contestazione fu un fenomeno occidentale, in Italia finì per conformarsi al carattere degli italiani: all’intreccio di anarchismo, egoismo particolaristico e ricerca di protezione (dallo Stato, ma non solo) che ci caratterizza, l’individualismo narcisista del ‘68 fece così da rumoroso amplificatore.

E il liberalismo, già merce rara nelle mentalità degli italiani, divenne rivendicazione di «liberazione», la richiesta di maggiore equità si trasformò in egualitarismo, la difesa e la tutela dei diritti si mutò in «dirittismo»: l’idea tremenda che tutto ai cittadini sia dovuto (dallo Stato) senza beninteso adeguate contropartite in termini di doveri.

E che tutto ciò debba essere chiamato «diritto», facendo perdere al concetto il suo significato originario: così ecco il «diritto ad abortire», il «diritto alla casa» (che spingeva alle occupazioni), il «diritto a aumenti salariali», anche quando l’impresa stava per fallire, il «diritto alla salute», cioè sanità per tutti, senza guardare il reddito e le condizioni sociali, il «diritto allo studio», quindi tasse universitarie basse, bocciatura bandita nelle scuole superiori e 18 politico nelle università.

È proprio così: come ci ripeteranno ad nauseam i nostalgici, il ’68 è il padre dell’Italia presente. [spacer height=”20px”]

Marco Gervasoni, Il Messaggero 2 gennaio 2018

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