Una guerra, lunga, a bassa intensità

Una guerra, lunga, a bassa intensità

Dopo aver pianificato molto abilmente l’assalto del 7 ottobre, Hamas non aveva evidentemente adottato alcuna contromisura per l’inevitabile controffensiva israeliana. Non ha previsto l’interruzione dell’elettricità e dell’acqua fornite da Israele a Gaza, né ha predisposto misure per i civili che vivevano sopra o nelle vicinanze di strutture note di Hamas che sarebbero state bombardate. Non ha nemmeno preparato le sue milizie, i cui missili anticarro non erano all’altezza della rivoluzionaria difesa attiva «Trophy», dei carri armati «Merkava» di Israele e degli enormi veicoli da combattimento per la fanteria «Namer» da 65 tonnellate.

Quando sono iniziati i bombardamenti di Israele, i civili non potevano entrare nei tunnel di Hamas: uno dei suoi leader ha candidamente spiegato a un intervistatore della tv araba che i rifugi erano esclusivamente per loro, i miliziani, aggiungendo ipocritamente che la protezione dei civili era responsabilità delle sole Nazioni Unite, come se l’Onu avesse rifugi o armi antiaeree.

Nelle guerre passate, le offensive israeliane sono state sempre molto rapide: in parte perché puntualmente le Nazioni Unite iniziano a dettare i cessate il fuoco non appena Israele comincia ad avere successo sul campo, e in parte perché la velocità nel decidere, muoversi e combattere è il vantaggio più evidente dell’esercito israeliano in combattimento. Ma a Gaza, come previsto, la velocità è stata la prima cosa a cui gli israeliani hanno dovuto rinunciare. L’irruzione nei tunnel non avrebbe spinto il nemico a fuggire nel panico, come in tante offensive israeliane del passato. Al contrario, i sensori nascosti avrebbero innescato cariche di demolizione, destinate a esplodere dopo che i soldati fossero avanzati oltre, intrappolando le truppe nel sottosuolo.

Nelle ultime settimane, i soldati in avanscoperta sono stati quindi costretti a seguire pazientemente gli esploratori di tunnel, gli ingegneri da combattimento specializzati dell’«Unità Yahalom», che a loro volta si sono affidati ai loro radar a bassissima frequenza per scovare i tunnel attraverso la sabbia e la roccia e a cani appositamente addestrati per trovare la strada da percorrere. Per questo motivo, il numero di caduti israeliani è stato relativamente basso, mentre gran parte della rete di tunnel del Nord di Gaza è stata distrutta, centinaia di combattenti di Hamas sono stati uccisi, e circa cento di loro sono stati catturati per essere interrogati in Israele.

Fin dall’inizio, sarebbe stato impossibile trovare ostaggi o catturare i principali leader di Hamas, poiché entrambi i gruppi sono stati portati nel Sud di Gaza dopo che l’esercito israeliano aveva chiesto l’evacuazione del settore settentrionale. Ciò significa che la guerra non è ancora a metà strada: sono stati attaccati solo i tunnel settentrionali, mentre i razzi vengono ancora assemblati e lanciati ogni giorno dai tunnel meridionali. Tuttavia, da un punto di vista strettamente militare, le prime fasi della guerra si sono svolte con un successo superiore alle attese iniziali, considerando il vantaggio intrinseco dei difensori nella guerra urbana e le ampie opportunità di imboscata offerte dai tunnel.

Ma la strategia accorta e prudente che ha permesso a Israele di spazzare via il settore settentrionale con un numero minimo di vittime ha un alto prezzo politico: prolunga la guerra. Questo è un problema per il presidente Usa Joe Biden, che deve tenere sotto controllo i piccoli ma rumorosi progressisti filo-palestinesi del suo Partito Democratico, mentre la sua squadra diplomatica deve occuparsi degli alleati e degli amici dell’America nel mondo musulmano.

Al tempo stesso, però, su un altro tavolo la partita si sta evolvendo molto favorevolmente per la squadra di politica estera di Biden: non deve confrontarsi con gli alleati europei che si oppongono al sostegno degli Stati Uniti a Israele, come hanno dovuto fare i suoi predecessori nelle guerre precedenti. Nel 1967, ad esempio, il governo italiano si rifiutò di consentire l’invio di maschere antigas a Israele per fare fronte alla guerra chimica egiziana. Sei anni dopo, per paura dell’embargo petrolifero arabo, i governi europei non permisero agli aerei statunitensi che trasportavano rifornimenti a Israele di entrare nel loro spazio aereo. Ora le cose sono completamente diverse, perché tutti i governi europei che contano sostengono la politica statunitense a favore di Israele e Israele stesso, così come l’Unione Europea, la cui presidente Ursula von der Leyen è volata in Israele per dirlo chiaramente fin da subito.

Sebbene questo riduca notevolmente i problemi per il team di Biden, una grave ripercussione è inevitabile: la guerra di Israele è una terribile distrazione dalla guerra in Ucraina, che a sua volta è un’enorme distrazione dal confronto che conta davvero, quello con la Repubblica Popolare Cinese. Il fatto che Biden abbia incontrato Xi Jinping a San Francisco la scorsa settimana, senza che i due venissero alle mani, può essere un buon segno, ma non risolve il problema che deriva dalla bellicosità di Xi.

La quale si manifesta ogni giorno e in molti modi, con l’aggressivo pattugliamento di aerei e navi da guerra cinesi intorno a Taiwan, al largo delle Filippine, tra le isole del Vietnam e gli isolotti Senkaku del Giappone, nonché con le potenti forze di terra dispiegate costosamente alle altitudini estreme del Tibet per minacciare la frontiera indiana del Ladakh. L’India non è un alleato, ma le forze aeree, navali e terrestri statunitensi e indiane si addestrano insieme e il Pentagono deve pianificare il supporto aereo che gli Stati Uniti non negherebbero se fosse necessario.

Tutto ciò significa che, mentre la coalizione di governo israeliana si sta preparando a un altro mese di guerra, Biden e il suo team vorrebbero che i combattimenti fossero terminati ieri, o almeno non appena gli israeliani tenuti in ostaggio nella Striscia di Gaza potranno essere recuperati. Anche Hamas, nel frattempo, è alla disperata ricerca di un cessate il fuoco; solo il suo massimo leader vive nel lusso del Qatar, mentre tutti gli altri in fuga a Gaza sono in pericolo di vita.

Nei negoziati che si stanno tenendo in queste ore, la strategia di Hamas consiste nello scambiare il minor numero possibile di ostaggi con il cessate il fuoco più lungo possibile, esattamente il contrario di quanto chiede la coalizione israeliana, mentre i qatarioti pendono una volta da una parte e una dall’altra per trovare un compromesso.

Nell’attesa, i funzionari americani e israeliani si trovano su lati opposti della questione del cessate il fuoco, ma senza alcuna acrimonia percepibile. È una questione di fiducia reciproca. Gli israeliani non si sono mai fidati pienamente di Obama, che anzi ha ordinato un cambio di politica dannoso alle Nazioni Unite proprio negli ultimi giorni del suo mandato, ma si fidano di Biden. Sono anche impressionati dalla mano ferma del Segretario di Stato Antony Blinken e dalla competenza professionale del Segretario alla Difesa Lloyd Austin, già noto per il suo precedente ruolo di comandante di tutte le forze statunitensi in Medio Oriente.

Queste basi non assicurano che le due parti siano d’accordo su tutto, ma certamente su ciò che conta davvero: gli Stati Uniti accettano che Hamas, con la sua dittatura oppressiva su Gaza e la sua dichiarata politica genocida, non possa essere un partner negoziale e debba essere distrutto, proprio come è stato distrutto lo «Stato Islamico» dell’Isis.

Allo stesso modo, il nuovo governo di coalizione israeliano, a differenza di Netanyahu quando aveva ancora il controllo esclusivo, accetta che la diplomazia statunitense riprenda la ricerca di rimedi pacifici al conflitto.

La condotta esemplare dei cittadini arabi di Israele – molti dei quali, dai neurochirurghi ai meccanici, stanno facendo gli straordinari per sostituire i riservisti – e l’empatia dimostrata dai loro leader eletti sulla scia dell’assalto omicida del 7 ottobre, hanno insegnato anche agli israeliani scettici che la realtà della coesistenza all’interno di Israele potrebbe essere estesa ai territori palestinesi con un accordo politico.

Il Giornale 

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