E io pago

E io pago

Non esistono mesi senza scadenze fiscali, ma ne esistono in cui si concentrano sadicamente. Giugno è uno di questi. Pagare già non è una delizia, doverlo fare in modo complicato, spesso non riuscendoci se non con l’ausilio di un professionista, è un supplizio.

Servirsi di un commercialista è una scelta utile a tenere in ordine i propri conti, ma caricarsi della spesa per aiutare lo Stato a incassare è una beffa. I contribuenti onesti pagano troppo. A questo s’aggiunga che lo Stato prende con occhio guercio e distribuisce alla cieca.

L’Agenzia delle entrate informa che sono 19 milioni gli italiani che hanno pendenze con il fisco, per imposte, tasse, tributi o multe non pagate. 16 milioni di persone fisiche e 3 fra società e partite iva. Il totale non riscosso ammonta alla fantastica cifra di 1.100 miliardi. Fantastica non perché altissima, ma perché parto della fantasia: la grandissima parte di quei soldi non li vedremo mai.

Un buon numero di debitori sono prudenzialmente defunti, molti provvidenzialmente falliti, una moltitudine si dice nullatenente. L’occhio guercio sa chi sono, ma non sa come sono messi: tumulati o abili evasori. Se di quei 1.100 miliardi se ne incassasse il 10% sarebbe già un successone, ma non c’è da sperarci, visto che dei citati 19 milioni solo il 15% ha approfittato di rottamazioni, sconti e volemose bene mettendo in conto ad altri. Fin qui siamo a 20 miliardi d’incasso.

Meno del 2%. Ma basta che qualcuno accenni all’idea di chiedere gli spiccioli di quel tesoro che subito parte la ola politica della “pace fiscale”. Inutile a chi ha imboccato la pace eterna (lì si tratta di cancellare), oltraggiosa per chi paga per tutti e gli si suggerisce la pace dei sensi.

La disfunzionalità della redistribuzione brucia gran parte della ricchezza che versiamo. In qualche caso, come con l’orrido bonus 110%, anche contribuendo ad alimentare l’inflazione, ovvero l’impoverimento perseguito con altri mezzi. L’inesauribile fantasia assistenzialista partorisce sempre nuove occasioni di trasferimenti, non pochi dei quali destinati a cadere non nelle tasche dei poveri, ma degli evasori (che astutamente figurano come poveri).

È quasi una bestemmia dire l’ovvio: la spesa pubblica deve diminuire, ove si voglia far scendere una pressione fiscale che è altissima se calcolata sul prodotto interno lordo, ma è intollerabile se calcolata sul portafoglio di quelli che pagano veramente.

Ma la discussione pubblica è animata da dissociazione dalla realtà: abbiamo una distanza fra costo del lavoro e salario reale (cuneo fiscale) dieci punti sopra la media europea, ma si chiede l’aumento dei salari senza aumento della produttività e anche l’aumento della spesa previdenziale, mandando le persone in pensione prima. Non ha alcun senso. Ma vuoi mettere lo spasso nel parlarne?

Come anche l’antico dilemma: tassiamo il lavoro o il patrimonio? Li tassiamo entrambe, il primo più degli altri europei e il secondo meno. Prima di riequilibrare i pesi, però, si deve prendere atto che stiamo parlando sempre delle stesse persone, perché con i redditi descritti nella dichiarazione annuale il patrimonio è già tanto se non te lo vendi.

Se l’italiano che dichiara più di 100mila euro l’anno (cui lo Stato ne porta via più della metà) te lo devi cercare con più fatica di un cervo albino, il patrimonio è preesistente o nascosto. A pagare sono le stesse persone. Ma se ti passa per la testa di censire gli immobili e scovare i non accatastati, ovvero quelli realizzati e detenuti in evasione fiscale, scoppia il finimondo e il grido al fisco taglieggiatore.

La sora Cesira e il sor Augusto osservano attoniti. L’essere fra quanti hanno sempre pagato è per loro motivo d’orgoglio. Benché colti dal dubbio d’essere fessi. Ma quel che li disturba è che la notizia si sia diffusa e tanti politicanti li prendano pubblicamente per tali: fessi.

La Ragione

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