È il momento di rivedere l’istituto dei senatori a vita

È il momento di rivedere l’istituto dei senatori a vita

E se li abolissimo? Conclusa la lettura de “I senatori a vita visti da vicino”, brillante saggio del costituzionalista Paolo Armaroli, la domanda sorge spontanea. Non si vogliono abolire i senatori a vita di nomina presidenziale? Bene, ma almeno impediamogli di votare la fiducia ai governi, cioè di avere un peso politico decisivo. Peso immeritato, dal momento che svolgono la loro funzione per grazia presidenziale e non per volontà popolare.

L’articolo 59 della Costituzione dice che “Il Presidente della Repubblica può nominare senatori a vita cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. Il primo, il matematico Guido Castelnuovo, fu nominato nel 1949; l’ultimo, Liliana Segre, nel 2018. In tutto, l’aula del Senato ne ha visti sfilare 38. In teoria. Molti di loro non si sono infatti mai visti. Armaroli, raro caso di cattedratico con prosa montanelliana, li chiama “i fantasmi” e correttamente si chiede se la loro sistematica assenza sia compatibile con lo spirito della Carta costituzionale e con l’onore ricevuto.

Nella mia breve esperienza senatoriale, ad esempio, durante la scorsa legislatura ho avuto modo di apprezzare la presenza della biologa Elena Cattaneo, dell’economista Mario Monti e, compatibilmente con l’età, di Liliana Segre. Ma l’architetto Renzo Piano non l’ho mai visto comparire, mentre il Nobel per la fisica Carlo Rubbia l’ho intravisto sí e no un paio di volte. Hanno altro da fare, d’accordo. Ma allora perché non rinunciano ad uno status che di per sè presuppone la disponibilità ad elevare il dibattito parlamentare? «I saperi, le competenze, le esperienze dei benemeriti della Patria rappresentano per il Senato elettivo un valore aggiunto. A condizione, però, che esercitino sempre le loro funzioni con disciplina e onore come prescrive la Carta costituzionale», scrive Paolo Armaroli. Il quale, a testimonianza di quanto i tempi siano cambiati, ricorda che don Luigi Sturzo cercò di rifiutare la nomina che gli veniva offera dal presidente Luigi Einaudi perché «non sono sicuro di poter venire in aula tutti i giorni»… Altri tempi, appunto.

Ancor più sconveniente, nella soppiattante ricostruzione armaroliana, il ruolo “politico” svolto dai senatori a vita in alcuni passaggi cruciali della storia repubblicana più recente. Il secondo governo Prodi nacque esclusivamente grazie al voto di 6 senatori a vita su 7, i quali consentirono al governo di centrosinistra di muovere i primi passi «senza neanche prendersi il disturbo di motivare il proprio sì. Votano sì e basta. Perché? Perché sì», chiosa Armaroli. Il quale poi ricorda come l’intera legislatura iniziata nel maggio del 2006 dipese dagli umori dei nostri illustri e meritori concittadini, con Giulio Andreotti improvvisamente elevato dalla sinistra al rango di padre della Patria, da capo della mafia quale era stato fino a quel momento considerato.

Andò diversamente al debuttante Silvio Berlusconi. Armaroli rammenta che la fiducia al Berlusconi I passò per un solo voto: «Votarono sì Agnelli, Cossiga e Leone. Votarono no Andreotti, De Martino e Valiani. Perciò i sì pareggiarono i no. Ma si astengono Spadolini e Taviani. E prima della riforma del Senato del 2017 gli astenuti alzano il quorum di maggioranza. Ne consegue che la mozione di fiducia al Berlusconi 1 è passata non già grazie al sostegno dei senatori vitalizi ma, al contrario, nonostante il loro voto».

Il tema è stato affrontato da almeno una decina di disegni di legge costituzionale: c’è chi ha chiesto di sopprimere la figura dei senatori a vita, chi di inibirgli i voti di fiducia, chi di sottrargli il diritto di voto tout court. Non se n’è mai fatto nulla, anche perché la maggior parte delle proposte emendative fu formulata nelle fasi in cui più era rilevante il peso politico degli illustrissimi. Ragion per cui sarebbe opportuno affrontare il tema oggi, quando l’ampiezza della maggioranza è tale da scongiurare interpretazioni “partigiane” di un’eventuale riforma costituzionale.

Huffington Post

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