DeButtare

DeButtare

Si parla dei giovani come fossero soggetti deboli da sostenere. Li si descrive un giorno come assopiti sul divano e il giorno appresso come in fuga verso un indeterminato “estero”. Si generalizza facendo a gara nel cordoglio, nel crucciarsi per l’alloggio non confortevole o rattristarsi nel caso la loro vita sia lacerata dal sopruso di una bocciatura. Li si vuole conservare nei luoghi comuni perché questo è il modo migliore per non essere costretti a cambiamenti per il bene comune. Eppure ci sono dati che urlano la distanza fra la realtà e la sua rappresentazione.

Per qualche giorno si giocherà al piccolo costituzionalista, lasciando immaginare che se ci fosse l’intesa la via sarebbe in discesa. In realtà è lunga e nel suo scorrere si farà a tempo a dimenticarsene molte volte. Ma sarebbe un raggiro lasciar supporre che possa trovarsi nella riscrittura della Carta la chiave per ricondurre ai fatti forze politiche e culturali in fuga dalla realtà.

La disoccupazione italiana è nell’intorno dell’8%, quella giovanile supera il 22%. Tolta la crescente quota di quelli che non studiano e non lavorano – che il politicamente corretto vuole che siano compatiti e inducano tristezza, laddove sarebbe bene scuoterli con indignazione avvertendoli che ciascuno di noi ha un ruolo nella propria vita, che dare la colpa a “la società” o “il sistema” è il modo migliore per perdere senza neanche gareggiare – i giovani cercano lavoro e le aziende cercano lavoratori. Ma gli uni e le altre continuano a cercare. Per forza, avvertono quelli per cui è sempre colpa degli altri: le paghe sono troppo basse. Questo è però l’ultimo dei problemi.

In un Paese in cui lavora il 60,2% della popolazione attiva, dovendo mantenere gli altri il costo del lavoro sarà alto e le paghe basse. Per sempre. Se si aumenta il costo del lavoro si va fuori mercato, se si diminuisce il cuneo fiscale a debito si va fuori di testa. Si deve lavorare più numerosi, più produttivamente e più a lungo. Il che fa bene anche alla morale. L’insulto non sono le paghe basse – che cominciammo tutti con tre soldi – ma la protezione dei garantiti, il mettere in conto ai giovani pensioni che non avranno mai, una scuola poco formativa, un mondo del lavoro poco meritocratico, quindi la prospettiva inaccettabile che la paga resti povera a lungo.

Nonostante questo e i disoccupati, a smentire il luogo comune dei divanati mantenuti c’è il fatto che molti giovani lavorano. Nelle condizioni date. E uno studio dell’Istituto Piepoli avverte che, udite udite, sono anche soddisfatti. Il 55% è preoccupato per l’assenza di lavoro. Ma fra i lavoratori compresi fra 16 e i 26 anni il 38% si dichiara soddisfatto e ammette di avere scoperto un lavoro cui non pensava e in cui si trova bene, il 28% è soddisfatto perché sta facendo il lavoro per cui ha studiato, per il 18% è quello che avrebbe sempre voluto fare, mentre il 16% non è soddisfatto manco per niente. Dentro questo 16% la metà lamenta la paga bassa. Ora prendete giornali e discussione politica e ditemi se le due cose si somigliano. Manco da lontano. C’è un abisso fra chi parla del lavoro e chi lavora veramente.

La scena è occupata dal partito unico della spesa pubblica, secondo cui basta dare di più per diffondere felicità. Che poi tocchi pagare è triste ovvietà occultata. Non mancano i giovani in gamba: manca loro la libertà di crescere, di competere e di vincere. Chi emigra non cerca protezioni ma opportunità. Si deve aprirle loro anche dentro ai confini, il che farebbe crescere la ricchezza di tutti. Non saranno la Repubblica presidenziale o il premierato (ammesso che chi ne parla li distingua) ad aprire il mercato, ma la concorrenza, la preparazione e l’innovazione. Se politica e giornali preferiscono parlare di divani, attendati, sfiduciati è perché capiscono che quelli li aiuteranno a conservarsi. Mentre quanti sono capaci di camminare e correre senza compatimenti potrebbero essere presi dalla sindrome del debuttante, che s’accorge di potere buttare via quel che gli ostruisce la strada.

La Ragione

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