Acqua

Acqua

Il soccorso a quanti hanno visto la furia dell’acqua sommergere le proprie cose e le proprie attività è fuori discussione. In questo come in tutti i casi di disastri naturali. Esistono anche appositi fondi europei, dimostrazione della solidarietà che anima la costruzione dell’Unione europea. Fondi di cui l’Italia è stata ed è il principale beneficiario. E ci sono margini di bilancio italiano. Però non è normale né promettente che le richieste e le rassicurazioni si concentrino sul fatto che i danni saranno rimborsati al 100%. Quello è un modo per risolvere il problema materiale (quelli morali, per non dire quelli umani, sono irrisarcibili) di chi è stato travolto, ma non risolve alcun problema, restando un costo collettivo. Ed è doppiamente preoccupante che si dica «come per il Covid». Come se esistessero i cittadini da una parte e dall’altra (e distante) uno Stato che possa decidere se rimborsare o meno, come se i soldi che oggi distribuisce non fossero i soldi dei cittadini stessi. Sotto forma di maggiori imposizioni, minori prestazioni o maggiore debito. E una cosa non esclude l’altra.

Spesa dovuta, a sua volta dimostrazione della solidarietà fra cittadini, ma che risulta essere una luttuosa dissipazione se poi non si mette mano a quel che serve per evitare che si ripeta, qui o altrove. Dovrebbe essere chiaro il nesso fra il fatto che se piove troppo succede un disastro, mentre se piove troppo poco succede lo stesso un disastro, perché nell’un caso come nell’altro non si dispone di strumenti e siti per raccogliere. Se raccogliamo solo l’11% dell’acqua piovana, poi non ce ne ritroviamo per le irrigazioni; la stessa percentuale diventa funesta se di acqua ne cade troppa, perché correrà via senza bacini di deposito, fino a travolgere chi e cosa si trova sulla sua strada.

L’Italia non è il Sahara, l’acqua c’è ed è pure buona. Ma poi scarseggia se dal bacino al rubinetto se ne perde quasi la metà, se costa poco, se non si fanno investimenti e, difatti, in Ue siamo quelli che la pagano meno e sprecano di più. Al tempo stesso l’Italia non è l’Olanda, non ha vaste aree al di sotto del livello del mare, quindi il lavoro da farsi è cautelarsi dall’alto verso il basso, sapendo che se la piena arriva a valle senza freni o alternative poi si conteranno soltanto danni (e, comunque, anche in Olanda si sono posti il problema delle piogge eccessive e lo affrontano con vasche e bacini di raccolta).

Non si tratta di invocare un novello Leonardo da Vinci, che proprio dove oggi si abbatte l’alluvione progettò canali ancora oggi d’infinita bellezza, ma di fare quel che si sa di dovere fare. Compreso intervenire sui corsi d’acqua in secca per drenare il letto e pulire gli argini, che se oggi ti provi a farlo un bel processo per danno ambientale non te lo toglie nessuno.

Perché non si fa? Perché i governi si succedono, ciascuno lasciando il ricordo di piani con il nome accattivante e la sorte deludente? Perché il governo (ci pensino quelli che discettano di riforme costituzionali) sarebbe il “potere esecutivo”, fin dal suo primo giorno chiamato a fare, realizzare, eseguire, ma da noi è divenuto un affascinante “potere espositivo”: conferenze stampa, decreti con i nomignoli, promesse con la mano sul cuore. Poi tocca a un altro, che ricomincia da capo. Non a fare, ma a esporre.

In questa palude rischiano seriamente di affondare anche i progetti Pnrr: abbozzati pittorescamente dal governo Conte (indimenticabili gli “Stati generali”), sistematizzati in fretta da Draghi (con in maggioranza due dei tre partiti oggi al governo), conosciuti da tutti, di cui il governo Meloni immaginò modifiche, poi taluni dei loro sostennero che i soldi erano troppi, poi che si sarebbero sicuramente usati tutti, poi che non c’era niente d’impossibile, poi che la Commissione era disponibile e poi… interviste. Governare è difficile, ma farlo tirando la palla avanti e in alto è impossibile.

Acqua, quindi. Nel senso che siamo lontani e abbiamo il dramma sia dell’abbondanza che della scarsità.

 

La Ragione

Share