‘A livella

‘A livella

Uguali da morti

L’uguaglianza può non essere una bella cosa. <<Ccà dinto, ‘o vvuo capi, ca simmo eguale? …/Muorto si’ tu e muorto so’ pur’io>>. Il 2 novembre non si può non dedicare un pensiero ad Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Commeno Porfirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio, in arte: Totò (in realtà nacque Antonio Vincenzo Stefano Clemente, poi adottato dal marchese). Una sua poesia, forse la più bella e intensa, s’intitola “’A livella”. Incaricò un netturbino, <<’o scupatore>>, di spiegare al marchese che <<staje malato ancora e’ fantasia>>, che è inutile si senta un gran signore e lo disprezzi perché fa lo spazzino: la morte rende uguali.

Prima della morte, però, siamo diseguali. Il gusto per la vita, quindi, è un ulteriore motivo per amare la diseguaglianza. S’usa dire il contrario, per posa e falsa bontà, ma non è vero. E neanche bello. Anzi, sarebbe bruttissimo. Siamo uguali davanti alla legge, lo siamo nei diritti e nei doveri di cittadinanza (si faccia la cortesia di non dimenticare i doveri, perché senza quelli i diritti sono una diceria per gonzi). Per il resto siamo diversissimi l’uno dall’altro. Evviva. Pensa che noia parlare o giocare con uno uguale a me. Un incubo se fossero anche numerosi.

Il punto è: quindi solo morendo il marchese e lo spazzino diventano uguali? Brutto mondo, sarebbe. A parte che Totò, nato povero ai quartieri spagnoli e morto con quella sfilza di nomi, sarebbe la dimostrazione del contrario, ci sarà pure un modo per cambiare le cose senza passare per la burletta del blasone. C’è: la meritocrazia. Solo una sinistra deficiente può pensare che si debbano difendere gli ultimi dalla meritocrazia, perché quello è un modo per lasciarli ultimi fino al trapasso, sperando in un’uguaglianza cimiteriale peraltro negata da chi sostiene ci si divida anche colà.

Non solo lo spazzino deve potere soppiantare il marchese, ma il figlio dello spazzino deve potere far mangiare la polvere a quello del marchese, cosa che potrà avvenire solo se il vantaggio di partenza del ricco titolato avrà un peso inferiore alla selezione che si opera a scuola e, quindi, nel mercato che si apre dopo. Esattamente: selezione.

Se si cede alla trappola sociofilosofica che nessuno strumento di valutazione è sì buono da stabilire chi sia bravo e chi no, o in quella socioepigenetica che i privilegiati generano privilegiati, o in quella sociolassista che dischiude il campo al sociaccattonaggio del mantenimento degli ultimi per evitare che venga loro voglia di soppiantare gli avvantaggiati, uno solo sarà il risultato: ’o scupatore resterà scupatore e metterà al mondo uno scupatore.

Ma siamo a posto, ora c’è la destra al governo, quella che ha sul gozzo il ’68, quindi avanzerà il merito. Lo hanno messo anche nel nome del ministero. Magari, ma non è così. La destra in quel ministero c’è già stata ed ha fatto accordi con i sindacati. Il merito non è uno slogan, ma una pratica. Che non si può verificare se non si comincia dalle cattedre. Fate il conto di tutti quelli (sessantottini immaginari e multicolori) che chiesero a gran voce la stabilizzazione dei “precari” e toglieteli da quanti sono credibili quando parlano di merito. Non ci rimane quasi nessuno.

Per praticare il merito fra i banchi bisogna farlo valere anche nella carriera e retribuzione dei docenti. Per conoscerlo si devono misurare i risultati, seguendo il “prodotto”, ovvero gli studenti. Una scuola che promuove tutti e quelli in difficoltà se li perde per strada non è né lassista né classista: è inutile.

Vedo che si moltiplicano le geremiadi sul costo degli studi. Altra sciocchezza: sono quelli per gli alloggi e trasporti, non per gli studi. L’Italia è piena di borghi fenomenali che potrebbero diventare campus meravigliosi e attrarre studenti da rutto il mondo. Ma in cattedra ci metti quelli bravi e con un contratto annuale, non il cugino del preside con un contratto a vita.

La diseguaglianza è vita, se basata sulle capacità. Negarla è da necrofori del pensiero. Buon 2 novembre.

La Ragione 

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