Recensione di Rosita Del Coco del libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”

Recensione di Rosita Del Coco del libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”

«A chi non darebbe fastidio vedere l’arbitro – che, sia chiaro, ha condotto benissimo la gara – la sera dopo la partita, a cena, festeggiare la vittoria di una delle due squadre che poco prima aveva arbitrato?».

È da questo interrogativo, apertamente provocatorio, che muovono le brillanti riflessioni di Giuseppe Benedetto, consegnate al saggio “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere”, edito da Rubbettino nel 2022, con la prefazione di Carlo Nordio.

Un volume agile, che si legge tutto d’un fiato, con cui l’Autore si incarica di sviscerare uno dei temi più controversi della giustizia penale, destinato ad occupare “instancabilmente” il dibattito scientifico e politico: la (comune) collocazione ordinamentale dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero.

A tal fine, lo scritto ripercorre le tappe, i dibattiti e gli scontri che hanno attraversato la storia del nostro processo penale: dalla spinta garantista sottesa alla promulgazione del nuovo codice di procedura penale, alla stagione – «reazionaria» – avviata dalla Corte costituzionale nel giugno del 1992, fino alla presa di posizione legislativa, volta a ribadire l’adesione a quell’ideale accusatorio, che, oggi, a più di vent’anni dalla riforma dell’art. 111 Cost., appare affievolito.

Un percorso culminato in un disegno rimasto sostanzialmente incompiuto, a cagione dell’assenza di un serio adeguamento dell’organizzazione del pubblico ministero al mutato rito. A stagliarsi con chiarezza sullo sfondo della ricostruzione storica sono, infatti, le ambiguità̀ e le aporie – tutte insolute – del nostro assetto processuale, in cui proprio la mancanza di un deciso ripensamento dei temi dell’ordinamento giudiziario ha finito per ostacolare la effettiva rimozione dell’ibridismo, tipico della esperienza inquisitoria, tra la figura del giudice terzo ed imparziale e quella dell’inquirente.

Con un duplice effetto, del quale le pagine di Giuseppe Benedetto, restituiscono una nitida fotografia. Anzitutto, una “giurisdizionalizzazione” silente del pubblico ministero, il quale viene comunemente (mal)inteso alla stregua di organo rappresentativo di una parte imparziale all’interno della dialettica processuale. In secondo luogo, una proclamazione meramente à la carte della terzietà del giudice, la cui collocazione ordinamentale, vicina a quella del pubblico ministero, ne “contamina” il ruolo: l’equidistanza, formalmente sancita nelle norme del codice, è tradita dalla prossimità̀ delle funzioni, dovuta alla presenza di un unico organo di governo autonomo.

Due conseguenze nefaste della contiguità̀ tra giurisdizione e pubblica accusa, che rendono subalterno il cittadino-imputato, alterando, di fatto, la struttura triadica del processo.

Come abbiamo già avuto modo di osservare in un nostro precedente scritto[1], l’idea del pubblico ministero-organo di giustizia conduce, infatti, alla creazione di una vera e propria presunzione di infallibilità̀ para- giurisdizionale di tale organo. Una presunzione a sua volta rinfocolata dalla retorica di un principio di obbligatorietà̀ dell’azione penale troppo spesso orientato verso la legittimazione di metodi procedurali a vocazione autoritaria.

Si pensi, nella prospettiva da ultimo indicata, al costante richiamo, nella prassi, al canone di obbligatorietà̀ per sponsorizzare, a vari livelli, una visione del processo caratterizzata dalla egemonia del pubblico ministero e da un ideale di ricerca della verità̀ dai connotati tipicamente inquisitori. Basti, al proposito, richiamare il rapporto tracciato dalla giurisprudenza di legittimità̀ e costituzionale tra principio di obbligatorietà̀ e poteri probatori del giudice dibattimentale anche in funzione di supplenza delle omissioni del pubblico ministero.

Un’ipertrofica estensione concettuale ed operativa del principio cristallizzato nell’art. 112 Cost. che, invece di potenziarne la portata, lo ha svuotato della propria forza concettuale, strettamente connessa alle dinamiche dell’azione.

In tal senso va letto anche l’uso anomalo del canone della completezza delle indagini, presupposto e corollario del principio di obbligatorietà̀. Anziché́ stimolare una attenta e seria riflessione sulla anatomia dell’errore e del pregiudizio investigativo, e sulle sacche di discrezionalità̀ inevitabilmente connesse alle opzioni selettive sottese ai profili organizzativi del lavoro del pubblico ministero, l’imperativo della completezza investigativa ha finito per trasformarsi nel presupposto logico da cui inferire la pretesa giurisdizionalizzazione dell’organo dell’accusa.

Ma la simbiosi “pubblico ministero-organo di giustizia” è destinata a cedere il passo all’ovvio rilievo che un soggetto deputato a svolgere funzioni d’accusa, qualunque ne sia la natura, persegue comunque un interesse di parte.

Anzi. Sul punto, le pagine di Non diamoci del tu ben evidenziano un dato fondamentale, all’apparenza controintuitivo: «più̀ il pubblico ministero è parte e più̀ il cittadino è garantito», perché «il giudice è veramente imparziale solo se l’accusatore è inequivocabilmente parte».

La struttura triadica del processo, quale conditio per la realizzazione del rito adversary, è, tuttavia, incrinata dalla commistione e reciproca contaminazione delle funzioni e delle carriere al di fuori della scena processuale. È la mancata separazione di queste ultime la responsabile delle principali storture che emergono quotidianamente dalla pratica giudiziaria e di cui il volume dà lucidamente conto: la espansione del potere inquisitorio delle procure, con la costante ricerca del consenso da parte dei pubblici ministeri e la estrema mediatizzazione del processo penale; nonché la conseguente assenza di legittimazione del potere giurisdizionale davanti all’opinione pubblica.

Scrive, al proposito, icasticamente l’Autore: «l’avviso di garanzia è diventato sentenza non perché́ vi siano dei cattivi strateghi dell’informazione, ma perché́ il cittadino non addetto ai lavori ha difficoltà a distinguere i ruoli, pensa che i magistrati siano tutti uguali e che, dunque, se la colpevolezza è indicata dal pubblico ministero o dal giudice tutto sommato non cambia nulla. È necessaria una svolta culturale, che non giungerà̀ da sola, ma attraverso riforme che distinguano gli organi giudicanti da quelli requirenti, che rendano palese anche a un giovane delle scuole medie la differenza profondissima tra i ruoli. In questa nuova dimensione, in cui è limpido il carattere di parzialità̀ dell’ufficio di Procura, la giurisdizione non potrà̀ che essere centrale, perché́ ogni piccolo passo verso una delle posizioni in campo la comprometterebbe alla radice».

Dalla malattia, dunque, al rimedio. Ma come superare definitivamente ogni sorta di ibridismo giuridico tra le due figure, affinché la giurisdizione recuperi centralità e credibilità? È necessario risalire al peccato originale del fallimento del codice accusatorio, che, secondo la ricostruzione privilegiata nel volume, si consuma all’interno del CSM, dove pubblici ministeri e giudici decidono assieme delle sorti delle proprie carriere, cosicché «il PM di una corrente è in grado di influenzare la nomina del presidente di un Tribunale», con buona pace dei principi sanciti dalla Costituzione e della legge, che diventano, di fatto, «un nobile auspicio piuttosto che un baluardo per i diritti fondamentali del cittadino».

Di qui, la proposta contenuta nel citato disegno di legge, alla cui illustrazione è dedicata la seconda parte del libro. Si tratta, nello specifico, di un progetto di riforma che si muove lungo tre direttrici: il riequilibrio dei rapporti tra imputato e pubblico ministero; la trasparenza dei processi decisionali interni all’ordine giudiziario; la razionalizzazione del carico pendente sugli uffici di Procura.

In questa triplice prospettiva viene prefigurata una revisione delle disposizioni costituzionali dedicate alla disciplina dell’ordinamento giudiziario, diretta, anzitutto, alla costituzione di due distinti Consigli Superiori, della Magistratura giudicante e della Magistratura requirente, destinati ad occuparsi separatamente di carriere, sanzioni disciplinari e trasferimenti.

Ciò permetterebbe all’organo giudicante di acquisire nuova centralità̀, affrancandolo dalle logiche odierne, in cui il Consiglio Superiore della Magistratura, dominato dal sistema correntizio, appare ostaggio della cultura dell’accusa, che è destinata a prevaricare le ragioni della giurisdizione, a cagione dell’evidente maggior peso mediatico delle Procure.

Del resto, come osserva Carlo Nordio nella Prefazione, «anche prescindendo dagli intrallazzi correntizi e dalle baratterie di cariche emerse dai recenti scandali, la ragione si rifiuta di ammettere che il pubblico accusatore possa promuovere o bocciare un giudice davanti al quale, un attimo prima, ha perorato una tesi che magari gli è stata respinta. Perché́ se decisioni così rilevanti continuano a essere prese congiuntamente, allora non stupisce che poi nel processo emergano rapporti di anomala collaborazione».

Così, l‘istituzione di due distinti Consigli Superiori della Magistratura si prefigge di garantire più efficacemente l’indipendenza istituzionale del giudice.

Organi di autogoverno dei quali, inoltre, si propone – opportunamente – di mutare la composizione, portando la componente laica da 1/3 a 1/2, senza però incidere sulla maggioranza, che rimarrebbe in capo ai membri togati grazie alla presenza di diritto del Procuratore Generale della Cassazione, nel Consiglio requirente, e del Primo Presidente della Cassazione, nel Consiglio giudicante.

Ciò consentirebbe, nelle intenzioni dei proponenti, di revisionare il funzionamento del Consiglio Superiore, allo scopo di restituirgli, insieme a un serio sistema di valutazione professionale, quell’aurea di rispettabilità̀ imprescindibile per l’amministrazione trasparente e armonica della giustizia. I membri nominati dal Parlamento, esperti in materie giuridiche, potrebbero, infatti, contribuire in modo indipendente a esprimere un giudizio sulla professionalità̀ del singolo magistrato.

Un ripristino di meritocrazia che appare cruciale alla luce dei recenti fatti di cronaca, nonché del nuovo ruolo assunto dalla giurisdizione.

Sotto quest’ultimo profilo, le riflessioni di Benedetto si lasciano particolarmente apprezzare. L’Autore sottolinea il trend degli ultimi decenni verso un radicale cambiamento del ruolo riservato alla giurisdizione, non più̀ mera esecutrice delle norme, ma soggetto che partecipa all’evoluzione del diritto. Le lacune della regolamentazione normativa, l’oscurità̀ della legge e l’immobilismo del Parlamento hanno, in effetti, finito per affidare un compito inedito al giudice. Ne discende l’esigenza, dibattuta in tutti i Paesi occidentali, di ripensare i rapporti col Parlamento, al fine di garantire una maggiore legittimazione democratica del potere giudiziario.

Ebbene, in quest’ottica si colloca l’incremento del numero dei membri laici, professori universitari e avvocati da almeno quindici anni nominati dal Parlamento in seduta comune, che potrà̀ indirettamente accrescere la legittimazione dell’ordine giudiziario, così da renderlo più̀ forte in futuro per l’assunzione di decisioni orientate al riconoscimento di nuovi diritti.

Infine, l’ultimo punto della proposta di riforma esaminata è diretto ad integrare l’art. 112 Cost. nei seguenti termini: «Il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale nei casi e nei modi previsti dalla legge». L’integrazione mira ad affidare al Parlamento il compito di stabilire criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale, allo scopo precipuo di razionalizzare, in maniera trasparente, il carico di lavoro dei pubblici ministeri. Il che appare in linea con l’auspicio, da tempo formulato in sede scientifica, di legittimare, disciplinandone limiti e contenuti, quella discrezionalità̀ che anche oggi, nei fatti, i pubblici ministeri esercitano a causa del numero elevato di procedimenti pendenti presso gli uffici di Procura.

Si tratta, nel complesso, di un disegno riformatore equilibrato, nella misura in cui aspira a risolvere le principali contraddizioni della nostra giustizia penale, senza incorrere nella principale obiezione tradizionalmente sollevata dall’opzione favorevole alla separazione delle carriere: vale a dire quella di consentire l’esercizio di un controllo politico a discapito dell’indipendenza dell’ordine giudiziario.

Non diamoci del tu ha il pregio di illustrare in maniera approfondita tale progetto, attraverso una riflessione “laica” e non prevenuta intorno ad un tema spesso ostaggio di un peculiare ostracismo ideologico e di un dibattito fondato su asserti di deciso impulso conservativo difficilmente giustificabili sul piano tecnico-giuridico.

Un approccio da cui l’Autore rifugge apertamente, prendendosi carico di stigmatizzare anche le altre obiezioni che surrettiziamente vengono mosse alle proposte di separazione delle carriere, attraverso l’analisi della disciplina della collocazione ordinamentale dei magistrati nelle più importanti democrazie occidentali.

La prospettiva comparata consente, infatti, di sgretolare alcuni “falsi miti” costruiti intorno al tema oggetto del volume, come l’idea secondo cui le carriere sarebbero divise solo nei Paesi di Common Law, o la preoccupazione circa il rischio di dare vita, tramite la costituzione di un ordine autonomo e distinto dei Pubblici Ministeri, ad una corporazione di “super-poliziotti” dai poteri illimitati.

Nell’ultima parte del libro risiedono, così, pagine preziose. Guardare all’esperienza anglosassone, tedesca, francese e portoghese significa rendersi conto di come la pubblica accusa italiana goda, in realtà, di uno status del tutto eccezionale, che lo rende, probabilmente l’accusatore più̀ potente al mondo, senza tradursi in una sua maggiore capacità investigativa e “repressiva”.

Il che testimonia l’urgenza di affrancare il dibattito italiano da atteggiamenti intrisi di stentoree affermazioni di principio, ma di sostanziale chiusura verso ogni forma di rinnovamento concettuale e culturale.

A questa impellente esigenza risponde il saggio Non diamoci del tu. A beneficio del lettore, Giuseppe Benedetto svolge al meglio tale compito, con una analisi lucida e profonda, arricchita dalla sensibilità che evidentemente deriva dal quotidiano contatto con la pratica del processo penale.

In conclusione: se nella premessa l’Autore esordisce confidando che “Non diamoci del tu” «è il libro che avev[a] in mente di scrivere da tempo», la riflessione finale del lettore è che “Non diamoci del tu” è il libro che avrebbe voluto leggere da tempo.

[1] R. Del Coco, La maschera e il volto della consulenza tecnica d’accusa, in Proc. pen. giust., 2021, p. 669 ss.

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