Paolo Valentino: Il ritiro Usa dalla Germania. La partita al veleno di Trump

Paolo Valentino: Il ritiro Usa dalla Germania. La partita al veleno di Trump

A quella festa a Long Island, il giovane ed esuberante palazzinaro newyorkese fece di tutto per avvicinare Richard Burt. Era l’estate del 1989. Burt, ambasciatore in Germania sotto Ronald Reagan, era stato appena nominato da George Bush padre capo negoziatore americano nelle trattative Start per la riduzione delle armi strategiche con l’Unione Sovietica. Era un posto che Donald Trump, già autonominatosi the master of deal, aveva sognato per sé, proponendosi come capo delegazione.

Tuttavia, nonostante numerosi tentativi di contattare direttamente i piani alti delle Amministrazioni Reagan e Bush per perorare la propria causa, per fortuna non era mai stato preso sul serio. Rassegnato, quel pomeriggio volle dare un consiglio al diplomatico.

«Quando vede per la prima volta il suo interlocutore sovietico – esordì Trump davanti a un incuriosito Burt — lei lo metta a suo agio, magari lo inviti fuori per un drink, gli chieda della sua famiglia, gli parli del più e del meno in tono confidenziale, si prenda il suo tempo. Poi con calma, quando avete finito la conversazione, Io guardi in faccia e gli dica: per quanto riguarda il nostro negoziato, fuck you!».

Andò veramente così. Sono passati trentuno anni. «E posso dire che non è cambiato nulla in Trump, tranne il fatto che ora sia il presidente degli Stati Uniti», dice il mio interlocutore. Probabilmente con nessun altro leader mondiale, l’attuale capo della Casa Bianca preferisce il testosterone alla diplomazia più che con Angela Merkel.

Nel giorno in cui l’economia americana e quella tedesca accusano tutta la forza distruttiva della crisi, registrando rispettivamente una contrazione di oltre il 32% anno su anno e del 10% trimestre su trimestre, Trump parla d’altro. E fa annunciare al capo del Pentagono che il ritiro di quasi 12 mila soldati americani dalla Germania inizierà «entro alcune settimane».

Il povero Mark Esper fa di tutto per venderla come «una decisione strategica», frutto di consultazioni con gli alleati della Nato e tesa a migliorare la deterrenza nei confronti della Russia. Nulla di tutto questo. È lo stesso presidente a mettere le cose in chiaro: la Germania va punita, perché «is delinquent», cioè sarebbe morosa nei suoi pagamenti alla Nato. Anche questa è un’invenzione trumpiana. In realtà, nessuno versa soldi all’Alleanza. Berlino, come l’Italia e molti altri Paesi membri, spende per la difesa meno del 2% del Pil, che è l’obiettivo assunto come impegno dagli alleati europei.

Ma a scatenare la vendetta di Trump, non è solo o tanto il bilancio militare tedesco, peraltro da qualche anno in aumento. Chi o cosa lo spinge a una mossa che secondo tutti gli analisti danneggia in primo luogo gli stessi interessi dell’America? «Noi non siamo nell’Alleanza per fare un favore agli alleati — spiega Iwo Daalder, ex ambasciatore Usa alla Nato —, teniamo le truppe in Germania e altrove per prevenire le guerre e non doverle combattere».

La risposta ha un nome, e un cognome: Angela Merkel. È la cancelliera tedesca il vero rivale sistemico agli occhi di Donald Trump, molto più di Vladimir Putin o perfino di Xi Jinping, con i quali egli sente l’affinità elettiva degli uomini forti. Per una ragione di fondo, ben spiegata dall’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, John Bolton, nel suo The Room Where It Happened: «Trump ha problemi con le leader donna». E per carattere: tanto la cancelliera è fredda, controllata, attenta solo ai fatti, calma nella sua determinazione, quanto il presidente americano è instabile, capriccioso, collerico, incapace di concentrarsi e restio a ogni dettaglio. Nella telefonata che probabilmente ha fatto da casus belli al ritiro delle truppe dalla Germania, quella di giugno in cui Merkel rifiutò l’invito di Trump a un G7 negli Stati Uniti invocando la pandemia, il presidente americano ha perso ogni controllo dandole anche della «stupida», secondo la versione mai smentita di Carl Bernstein.

Ma soprattutto, a provocare l’astio personale di Trump è che Angela Merkel incarna tutto quello che lui odia: il multilateralismo, il diritto internazionale, il rifiuto di ogni populismo. E lo fa con la forza tranquilla, e anche la perfidia quando occorre, di una veterana del potere: «Non puoi combattere la pandemia con le bugie e con la disinformazione, tantomeno puoi farlo incitando all’odio. I limiti del populismo e della negazione di verità elementari sono visibili da tutti», ha detto Merkel di recente. Difficile costruire un ritratto più fedele di Trump, incapace di controllare il coronavirus negli Stati Uniti.

Sono sempre stati agli antipodi in verità la scienziata specializzata in fisica quantistica e il miliardario dedito solo al culto della celebrità. La novità ora è che, angosciato dalla prospettiva di una sempre più improbabile rielezione, il «maniaco narcisista» Trump (copyright della Frankfurter Allgemeìne Zeitung) ha abbandonato ogni remora e autocontrollo. Chi non lo elogia, gli fa uno sgarbo o gli ruba la scena, va punito. Ma con Angela Merkel il testosterone non sembra funzionare.

 

Paolo Valentino

Corriere della Sera, 31/07/2020

 

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