A proposito del Parlamento, del prossimo referendum e della libertà politica

A proposito del Parlamento, del prossimo referendum e della libertà politica

Lorenzo Infantino è professore di Filosofia delle Scienze Sociali alla LUISS Guido Carli di Roma. Fra le sue numerose opere, il volume dedicato all’analisi del potere politico, pubblicato in italiano dall’Editore Rubbettino e in inglese dalla Palgrave Macmillan. In vista del prossimo Referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, gli abbiamo posto alcune domande.

Professore, siamo quasi alla vigilia di un Referendum costituzionale sulla legge che riduce di un terzo il numero dei nostri rappresentanti in Parlamento. In via generale, che ne pensa?

Credo che molti di noi siano nelle condizioni di quegli eredi che non conoscono le ragioni del benessere di cui usufruiscono, prodotto del lavoro di coloro che li hanno preceduti. Nel caso che ci riguarda, non si tratta solamente di benessere, quanto soprattutto di libertà. Le istituzioni parlamentari sono il risultato di un processo storico, in cui generazioni di uomini hanno dovuto lottare strenuamente, contro forze che tendevano a rendere illimitato il potere dell’uomo sull’uomo. Mi soffermo solamente sul momento germinale. Quando Giovanni Senzaterra fu costretto a concedere la Magna Charta, il Papa dell’epoca, Innocenzo III, vide in quel documento qualcosa di «vergognoso e turpe», di «illecito e iniquo». Si spinse ad asserire: «noi fermamente rigettiamo e condanniamo tale accordo e, sotto minaccia di scomunica, ordiniamo che il re non osi osservarlo e che i baroni e i loro complici non richiedano che sia osservato». E giunse a dichiarare «nulla e priva di validità per sempre» la Charta, «con tutti i suoi impegni e le sue garanzie». Ecco: prima di invocare o proporre la riduzione del numero dei nostri rappresentanti, sarebbe opportuno ripercorrere qualche tappa della lunga vicenda storica che ha portato alla nascita delle istituzioni parlamentari.

Non mi è difficile sottoscrivere quanto lei sostiene. Ma il nostro è il Paese in cui il capo del governo si è autodefinito «avvocato del popolo». Come giudica tutto ciò?

Devo pensare che quella autodefinizione sia stata il frutto di un incontrollato momento di euforia. Ciò che quell’espressione evoca non è molto confortante, né commendevole. Ogni giurista sa che i soli rappresentanti del popolo sono coloro che siedono in Parlamento. Essi varcano la soglia delle aule parlamentari, perché sono scelti da noi. E hanno il prioritario compito di controllare l’opera dell’esecutivo. È questo un punto che non ammette equivoci. Se le decisioni parlamentari non soddisfano le nostre preferenze, o troviamo motivo per dolerci del comportamento di qualche nostro rappresentante, non dobbiamo mai dimenticare che quell’uomo o quella donna sono stati scelti da noi e che, al momento giusto, possiamo revocare loro il nostro consenso. Dobbiamo poi chiederci quale sarebbe la nostra condizione in un Paese privo di Parlamento o con un Parlamento ridotto a un pallido fantasma di quello che dovrebbe essere. Purtroppo, a partire dalla fine della cosiddetta prima Repubblica, l’istituzione rappresentativa per eccellenza ha subito una continua aggressione, portata avanti con attacchi diretti e indiretti. Al che si è aggiunta l’incapacità di chi ne aveva il compito di far comprendere che il Parlamento è l’unica istituzione attraverso cui i cittadini possono esercitare appieno la loro sovranità. Nei suoi Souvenirs, scritti parzialmente in Italia, Alexis de Tocqueville ha raccontatole vicende che si sono svolte a Parigi nel 1848 e che hanno condotto alla caduta della Monarchia di luglio. Alcuni suoi amici si preoccupavano di costituire un qualche potere andando al Ministero degli Interni. Tocqueville si preoccupava invece di difendere la Camera dei deputati, si proponeva cioè di sconfiggere l’avventurismo politico attraverso le istituzioni della democrazia liberale. Tocqueville potrebbe insegnarci molte cose.

La legge che “amputa” il numero dei nostri rappresentanti in Parlamento viene giustificata con l’esigenza di ridurre le spese della politica e di accrescere l’efficienza delle Camere. Le sembrano delle ragioni convincenti?

Come sa, è stato di recente riportato alla luce l’intervento tenuto alla Costituente da Umberto Terracini. Non possiamo che condividerne il contenuto. Terracini spiegava che l’economia di spesa non deve mai essere realizzata a danno della più ampia rappresentanza dei cittadini. Ci sono sempre altri capitoli del bilancio pubblico su cui si può intervenire. Per chi ha a cuore la causa della democrazia liberale, la questione è semplice: non possiamo stabilire un prezzo per la nostra libertà, perché essa è la prima condizione della nostra vita. Sono perciò costretto a tornare a Tocqueville, il quale ci ha rammentato che «chi nella libertà cerca qualcosa che non sia la stessa libertà è nato per servire». E non solo. Se anche potessimo prescindere da tutto ciò, e non possiamo, l’economia di spesa che potrebbe essere realizzata tramite la riduzione del numero dei parlamentari è, rispetto all’ammontare totale della spesa pubblica, del tutto risibile. E lo è anche rispetto a tutti gli sprechi a cui quotidianamente assistiamo.

Dimentica il problema dell’efficienza dei lavori parlamentari? È purtroppo opinione comune quanto errata che il Parlamento migliore sia quello che produce di più. Possiamo considerare le istituzioni parlamentari come se fossero una catena di montaggio?

No. Non ho dimenticato di rispondere alla sua domanda. Ma il problema merita un suo specifico approfondimento. Non ha alcun senso misurare l’efficienza del Parlamento in base al numero delle leggi o degli atti approvati. L’idea che ciò possa essere fatto cammina parallelamente al convincimento che la politica, per essere tale, debba continuamente interferire con la vita dei cittadini. Di qui la necessità di una sempre maggiore produzione legislativa. Lei ha scritto un libro, L’ideologia italiana (Liberilibri Editore), in cui spiega come le forze politiche italiane (non importa di quale schieramento) siano in prevalenza orientate verso tale obiettivo. Data tale premessa, è facile giungere alla conclusione che ogni intasamento legislativo debba essere assunto come indice della crisi della democrazia parlamentare. È un fenomeno di cui si parla sin dalla fine dell’Ottocento. Ma la diagnosi è completamente errata, perché la premessa è falsa. La crisi non discende dalla natura delle istituzioni parlamentari. È invece il puntuale portato dell’ideologia interventistica. E ha delle gravissime conseguenze sul piano strettamente economico. Il che richiederebbe un discorso a parte.

Sì, certo. Tuttavia, per limitarci all’aspetto politico del problema, significa che l’interventismo “normativo”, che è il presupposto dell’interventismo economico, altera la natura delle istituzioni parlamentari? Già in un mio saggio del 1977 vedevo nel Parlamento il “grande Amministratore”. La situazione, oggi, è pure peggiore.

Quando il Parlamento diviene il luogo in cui devono essere quotidianamente soddisfatte le richieste di clientele politiche, non è più la volontà della maggioranza a determinare cosa debba fare il governo. Accade invece che, per mettere insieme una maggioranza, il governo sia costretto a soddisfare ogni tipo di interesse particolare. È la pratica del cosiddetto logrolling, in cui ciascun gruppo, per ottenere il consenso necessario all’approvazione di ciò che chiede, vota a favore delle proposte degli altri. In tale situazione, il Parlamento rinuncia alla sua funzione di controllo; e si trasforma in una mera “stanza di compensazione”. Di qui l’affermazione di una « democrazia illimitata», che è di necessità una «democrazia in deficit», inevitabilmente accompagnata da tutti i fenomeni degenerativi connessi alla commistione fra “favori” e politica. à un fenomeno su cui già Aristotele si sofferma va. Vedeva nell’elargizione delle “protezioni” politiche un «vaso senza fondo», cioè a dire una strada senza ritorno.

Vuole dire che il “Parlamento amputato”, così mi piace chiamarlo, aggraverà la situazione in cui ci troviamo? Un risultato autolesionistico!

Non c’è dubbio. Sarà obbediente alla volontà del governo e renderà più facile la commistione fra “favori” e politica. Abbiamo sempre l’obbligo di comprendere quali possano essere le conseguenze di ogni iniziativa. Non possiamo fermarci alle parole o alle frasi con cui i provvedimenti vengono presentati o giustificati. L’«ammutazione» del Parlamento produce esiti esattamente opposti a quelli programmati. E forse tali esiti sono quelli che realmente si vogliono perseguire.

Proprio con riferimento ai fenomeni degenerativi, si dice spesso che, per migliorare la qualità del personale politico, sarebbe necessario ricorrere ad altri metodi, persino alla scelta per sorteggio? Li crede praticabili per il Parlamento? Io ritengo di no. L’estrazione a sorte, se ben congegnata, mi sembra invece l’ideale per il Consiglio Superiore della Magistratura.

Se il problema è la commistione fra “favori” e politica, scegliere per sorteggio i nostri rappresentanti non può essere la soluzione. Anzi, la consapevolezza di dover rimanere in carica per un periodo di tempo molto circoscritto è oggettivamente una spinta a “massimizzare” i vantaggi personali; il che compromette ulteriormente la “causa” della politica. Rinunciare a qualunque selezione, perché quella in atto non soddisfa le nostre esigenze, costituisce un arretramento che colpisce la nostra stessa libertà di scelta. In tutte le cose della vita, il dilettantismo non giova a nulla. Come Max Weber ci ha insegnato, la politica è una professione, che richiede un lungo apprendistato. Lo stesso Weber riteneva che l’uomo politico deve avere tre qualità «sommamente decisive»: la passione, il senso di responsabilità e la lungimiranza. Condannava la «demagogia incompetente», spesso posta in essere da impresari della menzogna. E comprendeva che l’elemento tragico è presente in ogni attività umana, soprattutto nella politica; le vicende storiche di ogni tempo ne sono testimonianza.

Torno più direttamente all’argomento principale della nostra conversazione. Oltre a restringere la spazio destinato all’esercizio della sovranità, la riduzione dei parlamentari altera pericolosamente l’equilibrio fra gli organi costituzionali. Che ne pensa?

Non posso che concordare. Il fatto è che sovente non ci rendiamo conto della complessità degli equilibri istituzionali. Recidiamo i legami che una cosa ha con l’altra o, più esattamente, con le altre. E procediamo ciecamente verso il baratro. E l’ingenua e pericolosa idea che le istituzioni possano essere arbitrariamente manomesse, senza doverne poi subire tutte le conseguenze. O, se vuole, è il semplicismo di cui si nutre ogni forma di demagogia.

Le pongo una domanda conclusiva. Voteremo sul Referendum senza sapere con quale sistema eleggeremo le future camere. Mi spaventa l’idea di una legge elettorale proporzionale con soglia di sbarramento e liste bloccate, soprattutto. Sarebbe un colpo di grazia alla democrazia rappresentativa. Avremmo un Parlamento amputato e autocratico!

È un aspetto del problema su cui ci siamo poc’anzi soffermati. La realtà istituzionale è complessa. E la partita in gioco è assai rilevante. Non siamo nella stanza dei balocchi. Gli esiti delle nostre azioni possono essere irreparabili. Nessuno può convincerci che il restringimento della partecipazione dei cittadini alla vita politica (magari aggravato, spero di no, dall’impossibilità di scegliere liberamente i rappresenti singulatim, persona per persona, anziché per blocchi prederterminati dai partiti) possa costituire un vantaggio per la democrazia. Un nonsense del genere può diventare verità solo in un universo come quello descritto da George Orwell. La ringrazio per aver voluto contribuire a chiarire il significato e le conseguenze del voto. R. Sono io a dover ringraziare lei. Non amo parlare fuori dalle aule universitarie. Ma questo è un momento in cui siamo tutti chiamati a mobilitare la nostra passione civile. Come ben sappiamo, le istituzioni resistono solo nella misura in cui riusciamo a difenderle.

Pietro Di Muccio De Quattro
Il Dubbio, 04/09/2020, pag. 8

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