Resoconti

Gianni LettaGianni Letta: Mario Lupo ha detto che questo dibattito è la conclusione di un ciclo di incontri che hanno affrontato alcuni problemi della realtà italiana di oggi; e credo che non si potesse concludere meglio. Lo dico amareggiato e preoccupato perché le infrastrutture come fattore di coesione, di competitività e di sviluppo sono qui rappresentate da tre opere controverse come il MOSE, il ponte sullo stretto e l’alta velocità Torino-Lione. Questo Paese vive in un groviglio di contraddizioni che ci fanno perdere competitività, che ci portano al declino, che ci impediscono di partecipare alla competizione mondiale e che frenano lo sviluppo. Da dieci anni in un’Europa che cresce poco noi cresciamo ancor meno e ne siamo il fanalino di coda.
La prima delle nostre contraddizioni sta nel fatto che da quando nel 2008 è cominciata quest’ultima crisi, destinata come dicono a cambiare il mondo, sento ripetere dai giornali, dalle televisioni, dagli economisti e dai politici che ci vuole la crescita – parola che nessuno sa cosa sia – e che la crescita non ci sarà senza investimenti in infrastrutture. Sembra quindi che attorno alle infrastrutture ci sia un universale consenso, ma poi qualunque infrastruttura si programmi si ferma per decenni. Queste tre grandi infrastrutture controverse sono strategiche e a loro modo avveniristiche; o forse lo erano 10-20 anni fa quando furono concepite mentre ora rischiano di invecchiare senza essere state realizzate.
La legge 798 per Venezia è dell’84 e il MOSE nasce come indicazione da quella legge speciale che gli italiani vollero e che il Parlamento approvò perché bisognava salvare Venezia. L’idea del ponte è molto antecedente a quando nel 2003 nacque la società del Ponte sullo Stretto; se ne parlava già nel 1800 e concretamente se ne parla da decenni. E l’alta velocità non è spuntata nel 2011 quando i “no-tav” si sono distinti nelle loro bellissime imprese o quando sulla tangenziale di Roma venivano a manifestare contro di essa. Sono cose antiche che stanno nel sogno degli italiani e che hanno occupato tecnici, politici, amministratori economisti con dibattiti lunghissimi. Ricordo il lungo dibattito che ha preceduto la legge su Venezia per il MOSE e gli articoli di Montanelli, e i tanti dibattiti fatti sullo stretto di Messina e sulla Torino-Lione. Non sono opere che spuntano per una visione imperialistica ma sono esigenze discusse, digerite dalle popolazioni e poi portate sul piano della realizzazione. È vero che qualche volta la visione imperiale è il modo di imporre una realizzazione ma in questo caso non si può dire che non si sia cercato il consenso.
Si sono cercate le risorse e a volte si sono trovate; ma quando sono state trovate poi, nell’alternanza dei governi, sono state scippate e destinate altrove anche se non c’è mai stato un altrove reale; ma se le risorse talvolta sono state trovate, il consenso non si trova mai. Al di là di queste tre opere controverse non siamo mai riusciti a realizzare uno dei tanti rigassificatori programmati, progettati e finanziati, e si potrà fare uno dei tanti termovalorizzatori necessari e che nel mondo smaltiscono i rifiuti con gioia di popolazioni che convivono con essi all’interno delle città, e con gioia degli amministratori che fanno i soldi? E noi portiamo in Olanda o in Germania, per il loro arricchimento, i rifiuti di Napoli e probabilmente presto quelli di Roma. E si è mai fatta un’autostrada o una strada anche provinciale senza rivolte o picchetti? Da noi l’antagonismo errante è una professione; e è sempre lo stesso che si sposta da un luogo all’altro. Sulla tangenziale di Roma c’erano gli stessi che stavano a Vicenza a dimostrare contro il Dal Molin, che in Val di Susa manifestavano contro la Torino-Lione e che in Calabria manifestavano per la variante di Cannitello.
Quante volte il presidente Ciucci è andato a Cannitello o a Reggio Calabria a discutere del sistema viario perché il ponte non sia una cattedrale sullo stretto, e quindi alla ricerca di un consenso diretto mettendoci la faccia? Ma non è riuscito a rimuovere pregiudizi che erano ideologici e politici; come spesso è soltanto ideologica la militanza dell’antagonismo errante, che prende ad alibi un presunto imperialismo delle decisioni che si imporrebbe alle popolazioni trascurandone gli interessi. Ma non è così.
Quando ho avuto pro tempore la responsabilità della Torino-Lione mi veniva detto che non si possono imporre decisioni prese da Roma da chi non conosce il territori; mi sembrò un’osservazione giusta e istituimmo un osservatorio del territorio che mi impegnai a presiedere e che avrebbe dialogato direttamente con le popolazioni per capire ed eventualmente stabilire quali compensazioni dare al territorio; perché spesso dietro l’antagonismo errante c’è la richiesta di compensazioni e benefici che in alcuni casi sono anche giusti. Quindi nel 2006 istituimmo un osservatorio per la Torino-Lione che da allora ha tenuto nei vari comuni della valle 191 sedute plenarie, decine di riunioni di gruppi di lavoro e 300 audizioni di cui una settantina internazionali. Il risultato fu che il progetto in discussione divenne un altro sul quale si ebbe il consenso di quasi tutti i comuni; ma poi scoppiò non la contestazione o l’antagonismo errante ma la rivolta. Non è vero che non si cerchi la mediazione nell’ambito del micro; lo abbiamo fatto e lo si fa per tutte le opere. E poi dobbiamo sentire – magari essendo tecnici è giusto che ce lo insegnino – che bisogna fare una legge sul modello francese per avviare il débat pubblic prima di fare una grande opera. Ma il commissario francese per la Torino-Lione ha detto che il dibattito realizzato in Italia attraverso l’osservatorio è stato l’esempio più democratico che mai si sia visto non solo in Europa ma al mondo. Tra l’altro ricordo che il contestatissimo tunnel lungo 57 chilometri ne vede 45 in territorio francese e solo 12 in territorio italiano. In Francia lo stanno scavando mentre noi abbiamo ancora la polizia che cerca di arginare i facinorosi.
Quindi caro professor De Rita l’antagonismo errante non è giustificato da una visione imperiale e dalla non ricerca del consenso ma da motivi che nulla hanno a che fare con i problemi reali ma. Per la Torino-Lione, dei 38 sindaci della zona, 34 hanno aderito e sono passati dal comitato del no a quello del sì; ne sono rimasti contrari 4 e 2 comunità montane oggi riunite che evidentemente perseguono obiettivi diversi. Ma come si fa a parlare di crescita e pensare che questo Paese possa competere in Europa con i giganti che le infrastrutture le fanno? La Svizzera ha quasi completato il nuovo traforo, la Francia ci sta lavorando e noi rimarremo tagliati fuori perché ci affidiamo soltanto al vecchio Frejus che fu progettato prima dell’unità d’Italia e inaugurato nel 1841. Ma non ci passano i container sui quali viaggia oggi la merce, è inadeguato e arrampicato in montagna. Ecco perché il suo traffico è scarso, argomento che i “no-tav” prendono a pretesto per dire che il traffico diminuisce.
In quanto al MOSE uno degli ultimi sondaggi dell’Ipsoa dice che il 63% dei veneziani è favorevole e che l’83% è favorevole a che si finisca perché il MOSE è già realizzato al 75%; ma si possono buttare miliardi di euro già investiti di un’opera straordinaria che illustra il genio, la creatività, il talento e l’inventiva italiana? Ci vengono da tutto il mondo a studiare queste paratie mobili e il sistema con cui si stanno realizzando anche per farle scomparire alla vista e non turbare un panorama come quello di Venezia. E noi quest’opera la contestiamo. L’abbiamo discussa negli anni 80 e negli anni 90, finanziata negli anni 2000, avviata nel 2003 e realizzata per il 75%; e adesso ci fermiamo buttando quei 4 miliardi di euro già in mare per non mettercene ancora uno che dovrebbe consentire il completamento dell’opera e il suo funzionamento nel 2014. E ci si ferma per una contestazione pregiudiziale evidentemente ispirata non dagli interessi del territorio.
Tornando alla Torino Lione, è vero che vanno valutati gli interessi della Val di Susa ma è vero anche che ci sono in ballo gli interessi dell’Italia, della Francia e dell’Europa. La Torino-Lione è stata discussa e approvata nel Parlamento europeo, in Commissione e in tutte le sedi ed è finanziata per il 40% dalla Comunità Europea che l’ha dichiarata opera strategica per l’Europa e che ne controllerà i lavori. Un’opera oggetto di un trattato internazionale, che è finanziata, seguita e controllata dall’Europa si deve fermare a causa di quattro comuni della Val di Susa o qualche centinaio di antagonisti erranti? I giornali che tutti i giorni ci fanno la predica o contestano governi giudicati inadeguati a promuovere la crescita e a realizzare infrastrutture e salutano il nuovo governo perché finalmente capace di affermarsi in Europa, rivendicare la nostra dignità nazionale e promuovere la competitività del Paese ci dicono che le infrastrutture vanno fatte e poi cavalcano la protesta.
Ma se sapeste durante i giorni della rivoluzione l’inutile fatica fatta per mandare in televisione o su un giornale la voce di un non contestatore mentre i contestatori venivano intervistati a tutte le ore del giorno e della notte per fare la loro bella propaganda! Quei mass media che rimproverano ai governi di non fare a sufficienza per la competitività del Paese, per gli investimenti e per le infrastrutture danno poi voce soltanto a chi contesta le infrastrutture e non consente di realizzarle. È questa secondo me la vera contraddizione, questo è l’antagonismo errante che s’annida anche nei giornali e nelle televisioni.
Non facciamo i termovalorizzatori, né i rigassificatori, né le centrali elettriche ma poi tutti vogliono la luce elettrica, le comodità e l’aria condizionata. Forse ha ragione Zamberletti: è un problema di rappresentanza politica, di forza dei partiti, di capacità di organizzare o chiedere il consenso; o forse è la conseguenza di una crisi più profonda di carattere morale ed etico prima che politico; ma è certo che se non sapremo affrontare alla radice questo problema il titolo di questo convegno, “ le infrastrutture come fattore di coesione territoriale di sviluppo e di crescita” rimarrà soltanto un bel titolo per la conclusione di questo bel ciclo di dibattiti.

Zamberletti ,Letta, Lupo, De Rita, CappelloGiuseppe De Rita: Gianni Letta sostiene che nell’antagonismo errante c’è un aspetto politico ed uno professionistico. Ma il problema è più grave. Il problema non è quello dei cento black bloc che si spostano contestando da una parte all’altra. C’è una cultura collettiva italiana affezionata alla dimensione “piccolo”, al viver bene all’interno di una realtà piccola.
Il maggior avversario che abbia avuto il MOSE è stato Massimo Cacciari, che ha sempre sostenuto che i soldi per il MOSE erano sprecati e bisognava solo dragare i canali. Tutto si può dire di Cacciari tranne che sia un professionista dell’antagonismo; forse antagonista lo è culturalmente. Lo stesso Cacciari l’ho avuto come avversario quando abbiamo progettato l’Expo 2000 a Venezia e lui diceva che non serviva fare l’Expo perché le cose prospettate con l’Expo potevano essere realizzate anche senza l’expo e con strutture e progetti normali; li avete visti? No, però questo era l’atteggiamento. Anche l’antagonismo sulla Livorno-Civitavecchia non è politico né professionistico; qui il fatto è che la realtà maremmana si orienta oggi verso investimenti in piccoli-medi appezzamenti e che per chi in Maremma ha i suoi 50 ettari a vigna è più importante lo sviluppo vinicolo che l’autostrada.
Certo, in Val di Susa ci sono i black bloc finanziati non si sa bene da chi e ci sono i professionisti della violenza ma il fatto è che in Italia vogliamo cose piccole; la cosa grande ci spaventa. Sull’energia si è contro dighe e centrali nucleari ma siamo pieni di centraline a sole e tutti siamo contenti. Ma costa di più fare centraline sui campi o sui tetti di quanto costi avere energia elettrica da una buona centrale. Per noi vale il “parva sed apta mihi” e la possibilità di padroneggiare sul nostro piccolo.
Ho parlato di un diffuso antagonismo errante che rivendica anche un po’ di sovranità; e in questa rivendicazione non c’è soltanto furbizia o cialtroneria o delinquenza; c’è anche un po’ di nobiltà. Non siamo più sovrani della moneta né dei tributi e la nostra sovranità la possiamo ormai avere solo nella piccola dimensione. Il veleno del declino della sovranità in Italia sta arrivando ovunque. Se negli ultimi anni avessimo deciso di affrontare il problema della nostra sovranità come fece Mussolini con la “quota 90” avremmo affrontato il nostro vero problema; senza sovranità saremo sudditi di Goldman Sachs o di un commissario europeo o di una banca centrale europea che ci manda a dire che dobbiamo cambiare le province italiane non sapendo neppure cosa sia una provincia. E questa diminuzione della sovranità crea frustrazione. Noi italiani, con poco sovranità ci siamo vissuti nei secoli, però ci siamo sempre garantiti l’antagonismo dei Masaniello, quasi ad alibi e compensazione; quasi a dire che sì siamo sudditi di Goldman Sachs però a casa mia l’autostrada non la voglio: io le mie faccende me le gestisco io. La famiglia è l’unica che mantiene un po’ di sovranità; ma con queste ultime tassazioni di IRPEF e IMU saremo tutti più frustrati, più sudditi e più antagonisti. Dove poi l’antagonismo si colloca sarà un aspetto assolutamente secondario; importante è il fatto che vince sempre la sovranità del piccolo: la sovranità del piccolo imprenditore, del piccolo comune, della famiglia. Non siamo capaci di ragionare in grande: non abbiamo avuto un grande esercito né una grande impresa né una grande pubblica amministrazione. Perché in Italia il genio, la forza e il successo sono venuti dal piccolo. Ma oggi il piccolo diventa suddito e questa spinta a rendere sudditi gli italiani porterà ad un antagonismo errante e non controllabile perché può scattare in qualsiasi punto e in qualsiasi momento: sul rigassificatore, sull’ inceneritore e sulle piccole cose dove si può dire che la sovranità è del comune o degli abitanti del comune e c’è diritto di fare antagonismo e contropotere. Non difendere la sovranità nazionale e rifugiarsi nelle sovranità piccole è un suicidio: le sovranità piccole ci renderanno ancora più sudditi.
Ci condanniamo al suicidio se non capiamo che questo Paese, con questo meccanismo, diventa suddito e antagonista al tempo stesso. E non vedo chi in qualche misura senta il pericolo dell’avvelenamento continuo dovuto alla crisi della sovranità in Italia e della sua trasformazione in frustrazione suddita e in antagonismo errante. Le cose bisogna guardarle in faccia. Chi legge oggi la società italiana dal di dentro sente questo pericolo. Bisogna che in qualche modo si reagisca perché se abbiamo ancora un anno di crisi della sovranità, frustrazione sudditaria e antagonismo errante non so quando poi potremo riprendere in mano la società.
Siamo stati sudditi di Francia e di Spagna e si diceva “Francia o Spagna purché se magna” e adesso nella società si potrebbe dire “chi se ne frega, saremo sudditi di Leheman Brothers e di Goldman Sachs per un altro po’ ma se me capita de fa’ l’antagonista lo faccio”; ma questo non è l’esito di 50 anni dell’enorme meraviglioso sviluppo di questo Paese. Questa è regressione. Sarebbe bene che qualcuno la cavalcasse.

Gianni Letta: Chi conosce l’attività di De Rita e ha letto anno dopo anno i rapporti del Censis, che hanno saputo sempre individuare o precorrere i problemi, i fenomeni e lo sviluppo della nostra società sa che in molte occasioni la lettura del nostro Paese fatta da De Rita ha portato i responsabili di governo a cambiare politica, a fare delle scelte e a correggere. Gli interventi di De Rita sono sempre stati salutari; non sono stati dibattito accademico né sono rimasti nelle biblioteche. I suoi rapporti hanno sempre costituito oggetto di dibattito culturale e politico e spesso hanno determinato scelte fondamentali. Mi auguro che la sua lettura così pessimista possa portare a una riflessione e a uno scatto d’orgoglio da parte di chi deve e può farlo per ridare a questo Paese lo slancio che sembra abbia perso.
Ha ragione De Rita quando dice che continuando così questa società si condanna al suicidio. Io voglio augurarmi che da questo Gonfalone parta un monito verso chi deve avere a cuore gli interessi del Paese perché faccia qualcosa che consenta a De Rita al prossimo rapporto di dire “avevo visto giusto ma abbiamo fatto in tempo a cambiare”.

Giuseppe Zamberletti: Il tema del convegno sono le grandi opere controverse ma tutte le grandi opere sono controverse. La gente forse è convinta che il “piccolo è bello” sia la dottrina degli anni che viviamo; e questo potrebbe essere veramente la fine del percorso. Ma il “piccolo è bello” è sempre stato coltivato dalle nostre comunità; è stato sempre il sogno delle campagne ma anche dell’isolamento della gente che vive nelle città. Io forse sono nostalgico dei tempi in cui le forze politiche radicate nella società avevano potere di traino e capacità di superare le difficoltà del consenso. Il nostro Paese accettava il nucleare quando il nucleare non era ancora il nucleare sicuro di oggi; e glielo ha fatto accettare la capacità delle forze politiche di rapportarsi ai cittadini e di garantirli. Oggi dobbiamo cambiare gli strumenti della politica. Certo il referendum sul nucleare non è stato confortante, ma questo modo può far tornare la politica in campo. Oggi che la politica non è più in campo basta una torma di agitatori per coinvolgere mezzi di informazione e cittadini frastornati che poi si rifugiano istintivamente e regolarmente nel loro piccolo orticello.
Nel progetto esecutivo era previsto di dare a Messina il più bel lungomare d’Europa e creare all’interno della stessa opera la metropolitana dello Stretto realizzando la settima area metropolitana d’Italia e dando all’area un ruolo estremamente importante. Ci si sarebbe aspettato di vedere gente in piazza che applaude, ma nulla di tutto questo; e i “no ponte” sono fermi solo perché pensano che il ponte non lo si faccia. È un’opera che pur essendo interessante per la regione, il Paese e l’Europa darebbe un grande beneficio a una città che su questo dovrebbe essere estremamente solidale.
Il nodo è politico: si deve uscire da questa caduta libera delle forze politiche. Certamente la percezione della perdita di sovranità è un elemento importante da considerare; oggi il trasferimento di sovranità si impone e riduce gli spazi dell’azione politica nazionale però non penso che le teoriche forze politiche che si muovono oggi non possano interpretare questa nuova fase della storia dell’Europa e d’Italia. Certo, un governo con una strana maggioranza che garanzie può dare per investimenti di infrastrutture che vengano da fuori dall’area, che i lavori si portino a termine, che non si buttino via i soldi e che il costo da pagare ai compromessi per fermare l’antagonismo errante non siano talmente elevati da spingere qualsiasi operazione fuori mercato?
Abbiamo bisogno di tornare alla normalità della politica; ma anche a una politica la cui normalità non sia quella della decadenza. Credo che il problema sia questo.

Il tavolo dell'incontro

Domande dal pubblico

Giuliano Gazzani: Siamo sicuri che i poteri forti siano abbastanza forti o sono forti quattro stupidelli? I rapporti di forza sono quelli che si descrivono? Si continua a dire che il ponte si fermerà 50 giorni l’anno per il vento.

Giuseppe Zamberletti: Che il ponte possa fermarsi per il vento è un’enorme sciocchezza.

Francesco Napolitano: Penso che il problema del consenso stia nel fatto che chi lo chiede dovrebbe essere autorevole e credibile; e spesso non è così. Sono state finanziate infrastrutture lasciate incompiute, non si è stati in grado di spiegare l’utilità strategica di alcune opere, né di traguardare un obiettivo di medio-lungo periodo facendo capire alla popolazione che le infrastrutture servivano per il bene comune. In questo millennio le infrastrutture non sono più puntuali ma disseminate; la più grossa infrastruttura sta oggi nella difesa del territorio e una grossa infrastruttura sta nelle autostrade del mare; sono queste le cose che secondo me una classe dirigente illuminata potrebbe far capire alla popolazione e per le quali avrebbe il consenso senza nemmeno doverlo chiedere.
E un’altra osservazione: le infrastrutture che nella maggior parte dei casi sono immateriali, come ad esempio le reti tecnologiche, sono facilmente realizzabili perché la popolazione ne avverte l’utilità subito, prima della sua realizzazione e di goderne i benefici.

Angela Bergantina: Faccio tre osservazioni:
1. Gran parte dell’ostruzionismo verso queste opere deriva dalla loro poca credibilità in termini di realizzazione: bisogna rimuovere gli ostacoli che fanno continuamente bloccare i cantieri; un’opera infrastrutturale deve potersi realizzare perché dà ritorno economico e benefici sociali solo quando diventa operativa. Se la popolazione che deve dare il consenso alla sua realizzazione è quella che ne subisce solo i disagi senza vederne il ritorno avrà verso l’opera un approccio certamente negativo.
2. Forse c’è un problema di priorità: per rendere accettabile da parte della popolazione un’infrastruttura dobbiamo vedere quali sono gli investimenti che dobbiamo fare per primi. Quando parliamo del ponte sullo stretto immagino che ci sia un beneficio diffuso dell’opera; ma in Sicilia e in Calabria ci sono condizioni di vita non all’altezza di quelle di un Paese come l’Italia: pensiamo alla rete idrica e alle altre infrastrutture di trasporto necessarie per completare la rete. Fin quando la popolazione non percepisce il ponte come un elemento trainante dello sviluppo diventa difficile rendere credibile l’opera.
3. Certamente ci vuole questa famosa crescita ma per avere investimenti bisogna essere credibili sui tempi di realizzazione dell’opera. I capitali dall’estero si possono attirare ma chiunque investa vuole poi un ritorno economico; e il ritorno economico da un’infrastruttura è possibile solo quando essa diventa operativa.

Giuseppe Zamberletti: Un’ obiezione che viene fatta normalmente: “ma la Sicilia ha le ferrovie che non funzionano e voi volete fare il ponte!”. Ma qui c’è la responsabilità della politica di rapportarsi alla società civile e spiegare che in Sicilia andrà sempre peggio perché non ha senso una rete ferroviaria non collegata alla rete nazionale. Anni fa un presidente delle ferrovie diceva “ma smontiamole le ferrovie in Sicilia! Non sono collegate alla rete nazionale! Facciamo delle metropolitane locali; non ha senso avere in loco la rete ferroviaria nazionale; in Sardegna non c’è una rete ferroviaria degna di questo nome perché non è collegata alla rete nazionale”; essere fuori dal collegamento con la rete nazionale significa essere in condizione di continuo degrado. Ci sono delle opere che sono trainanti di tutto il sistema; l’alta velocità ha senso perché trainante di un sistema che scavalca la frontiera. Non avrebbe senso se non fosse collegata a tutta la rete europea. Le infrastrutture debbono fare sistema. E anche la grande infrastruttura si spiega se è sistema. Napolitano dice che è chi chiede il consenso che deve avere credibilità; è vero, ma io credo più alla credibilità di un sistema di forze politiche capaci e articolate sul territorio che alla credibilità della singola persona. Il fatto è che questo Paese dovrebbe avere forze politiche capaci di avere il consenso.

Maria Giovanna Scioscia: Ma ci sono soluzioni che ci consentano di uscire dalla depressione psicologica in cui è caduta la nostra Italia e di recuperare un orgoglio che rafforzi quel talento italiano che è lo strumento per uscire dalla crisi?

Riccardo Cappello: Penso che forse una riflessione sarebbe importante farla sulle infrastrutture immateriali di questo Paese perché secondo me sono quelle che effettivamente bloccano lo sviluppo; anche se poi occorrono sia le infrastrutture immateriali che quelle fisiche.

Guido Di Massimo

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