La scuola italiana? Un tempo ascensore sociale, oggi scivolo dissociato

La scuola italiana? Un tempo ascensore sociale, oggi scivolo dissociato

I bravi studenti italiani sono migliori di quanto si osi sperare. Quelli che restando indietro sono peggiori di quanto si tema. La domanda è: il diverso esito dipende dal diverso impegno di ciascuno? Se la risposta fosse affermativa non ci sarebbe che da spronare i somari ed elogiare gli studiosi, ma non è così. O, meglio: è troppo poco così.

Molto dipende da dove si è nati e dove si studia: più ci si trova in una zona svantaggiata più la scuola moltiplica lo svantaggio. Il contrario di quel che dovrebbe accadere.

Più la famiglia di provenienza ha minori disponibilità culturali (certo, anche quelle economiche contano, eccome, ma cultura e curiosità, disponibilità di libri e visione di qualcuno che li legge, esercitano una maggiore attrazione gravitazionale) più la carriera scolastica si svolgerà puntando al titolo di studio e non studiando, più, ad esempio, l’accesso ai terminali digitali (che hanno tutti, ma proprio tutti) sarà un precipitare nell’ipnosi social anziché l’aprirsi di una finestra sul mondo.

Fra quanti escono dalle nostre scuole e si ritrovano a studiare in altre parti del mondo molti scopriranno d’essere fra i più preparati (benché quasi sempre i più indietro in matematica), ciò perché è probabile che questo loro girare derivi da un investimento o da mobilità familiare, in un ambiente più aperto al volere e dovere capire. Proprio questo, però, segnala il drammatico fallimento della scuola.

Un tempo ascensore sociale, oggi scivolo dissociato.

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Non solo i ragazzi italiani sono fra quelli che fanno più giorni di vacanza, ma il 2018 si è aperto proprio con un prolungamento delle vacanze, perché sindacati degli insegnanti hanno deciso di fissare uno sciopero a partire dal giorno 8 gennaio. Supplemento d’epifania. Scioperi ponte e pontieri scioperati. Che ci si può attendere, da chi è rappresentato in modo da neanche avvertire l’enormità di una simile scelta? [spacer height=”20px”] [spacer height=”20px”]

Eppure insegnanti bravi e coscienziosi ci sono. E sono tanti. Come ci sono tanti bravi studenti. Il che non attenua il problema, ma lo ingigantisce. Perché la colpa nostra, individuale e collettiva, è quella di accettare e subire un sistema nel quale il merito non viene premiato e il demerito non viene punito.

Così in cattedra s’arriva non necessariamente per insegnare e fra i banchi si staziona non necessariamente per studiare: i primi vogliono un reddito e i secondi un titolo. Così chi si impegna riceve quanto chi se ne frega e passa il tempo in malattia o svogliatamente facendo compagnia alla classe. Così alla fine son tutti promossi, chi ha studiato e chi s’è industriato a non farlo. Una marmellata appiccicosa e insipida.

Rimedi

Rimedi? Smettiamola di misurare quanto si spende per alunno o in percentuale sul prodotto interno lordo. Oltre un certo limite di sciatteria quei numeri non dicono niente, perché si possono spendere tanti soldi buttandoli in spesa corrente e clientelare, o se ne possono spendere pochi investendoli in cultura.

La sola quantità dice poco. Buttiamo via montagne di quattrini (delle famiglie) in libri di testo che sono il monumento alla protezione degli interessi tipografici e la demolizione di quelli culturali. Rifiutiamo la misurazione dei risultati e quando la facciamo non ne traiamo alcuna conseguenza sensata. Ecco perché, nelle misurazioni internazionali, abbiamo posizioni vergognose. Talmente infime da essere pure ingiuste.

Si cancelli il valore legale del titolo di studio, si chiudano i pascoli dei diplomifici (inutili), si dia denaro a chi lo merita, avvertendo le famiglie su dove stanno inserendo i propri ragazzi. Si sbaracchi l’incultura falso progressista, in realtà paleo reazionaria, che rifiuta la contaminazione fra accademia e produzione, studio e lavoro. Avvedersi della realtà è molla di rinascimento. Non c’è ragione che c’impedisca di riviverlo, se non l’ottusa protervia di chi nell’oscuro declinare ha trovato modo d’allungar la propria scodella.

Davide Giacalone

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