Trump contro la Cina, una modesta scaramuccia

Trump contro la Cina, una modesta scaramuccia

La «guerra» dei dazi fra gli Stati Uniti di Trump e la Cina non costituisce una minaccia al libero scambio mondiale, nell’era della globalizzazione, intanto perché non è una vera guerra, ma – almeno sino ad ora – una modesta scaramuccia, ma soprattutto perché la reazione della Cina è puramente simbolica.

Trump pone dazi su prodotti strategici come acciaio, alluminio e high-tech elettronica per 60 miliardi di dollari e la Cina risponde con dazi per tre miliardi su generi alimentari. Carne di maiale per un miliardo di dollari circa, con dazio del 25%; frutta, mele, pere, noccioline, per 1,5 e vino per 0,5 miliardi, con dazio del 15 per cento La disparità delle cifre fra quelle che Trump ha disposto, e quelle con cui la Cina ha replicato è di 20 a 1. Ciò si collega al fatto che la bilancia del commercio degli Usa con la Cina è passiva per oltre 300 miliardi di dollari annui. Il dazio del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio esportato dalla Cina negli Usa disposto da Trump riguarda poco meno del 20% di questo deficit commerciale. Il resto, per un altro 2-3% riguarda prodotti high-tech sensibili per la Difesa. La Cina non ha interesse a perdere un cliente come Washington.

La sua modesta reazione mostra che si rende conto che la situazione siderurgica americana è tragica e non si addice a un’economia che ha la maggiore spesa militare per la Difesa del mondo, alla cui base c’è il metallo. La maggiore impresa Usa di acciaio è Us Steel con 11 miliardi di dollari di fatturato annuo mentre la franco-indiana Arcelor Mittal fattura 57 miliardi e la Thyssen Krupp tedesca ne fattura 40. La Cina potrà ridurre parzialmente l’effetto dei dazi di Trump mandando il surplus di prodotto in Paesi terzi, che li fanno diventare propria merce e cercando di mandarli negli Usa, ove essi non sono soggetti al dazio. Ma gran parte del surplus cinese di acciaio e alluminio rimarrà in Asia o tenterà di affluire all’Europa. L’Italia è fra i dieci maggiori produttori mondiali di acciaio, ma ha un’industria siderurgica molto frammentata e competitiva, ubicata soprattutto nei luoghi di utilizzo nel settore metalmeccanico: salvo l’Ilva di Taranto che fattura poco più di due miliardi all’anno, molti per l’economia locale, una briciolina a livello globale. Gli effetti negativi potranno essere limitati anche perché la Cina e l’Asia crescono e una parte crescente di questo sovrappiù sarà assorbito in quel continente. Le cifre in gioco in questa contesa doganale a tutta prima possono fare una certa impressione. Ma per l’economia mondiale della globalizzazione sono una puntura di spillo.

Che cosa sono mai 60 miliardi di dollari rispetto al Pil (il Prodotto interno lordo) degli Usa che è di circa 18mila miliardi di dollari e a quello della Cina che è di 11mila e a quello dell’Unione europea di 20mila? Tutto sotto controllo, dunque?

Non proprio, perché il mondo globalizzato, contrariamente a quanto molti economisti e politologi non aggiornati reputano, comporta la necessità di ri-valorizzare le identità nazionali. Ciò perché, diversamente, il mercato globale perde la natura di economia di libera concorrenza e diventa economia delle tecnocrazie controllata da alcuni paesi. L’Italia, il cui Pil è circa un decimo di quello dell’Unione europea deve tenere gli occhi aperti per non fare la fine del vaso di coccio fra quelli di ferro dell’asse franco-tedesco. Questo può e deve tornare a essere un tridente, come quando fu firmato il patto dell’euro, negli anni 80 del ‘900.

Francesco Forte, “Il Giornale” 3 aprile 2018

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