Stato-mafia, 4 domande senza risposta

Stato-mafia, 4 domande senza risposta

Diamo per conosciuti alcuni principi elementari: a) che la magistratura è indipendente e non vuol far politica con le sentenze; che queste ultime si possono criticare ma si devono rispettare; b) che per darne un giudizio compiuto occorre attendere il deposito della motivazione; c) che possono essere smentite o annullate dall’Appello o dalla Cassazione; d) e che comunque, prima della sentenza definitiva, vale per gli imputati la presunzione di innocenza.

Ammoniti da questi salutari precetti proviamo a riflettere, con animo freddo e pacato, sulla decisione di Palermo, elencando alcuni punti di perplessità.

1) Un processo che duri cinque anni è certamente un processo anomalo. E tanto più si attorciglia su sé stesso fra tragedie, polemiche e contraddizioni, tanto più condiziona gli stessi giudici che lo stanno conducendo. Perché una cosa è decidere tra l’alba e il tramonto, come nel processo a Socrate, se l’imputato sia colpevole o innocente, altra cosa e trovarsi ingarbugliati in una matassa di eventi lontani nel tempo, incerti nella ricostruzione e ambigui nell’interpretazione. Nel dipanare per mesi e mesi questa matassa, il giudice riceve una tale serie di condizionamenti che possono risolversi in inconsci pregiudizi. In altre parole, se una Corte impiega cinque anni per arrivare a una decisione, è assai difficile che alla fine ci dica che i fatti non sussistono. O comunque a dirci che i fatti non sono provati al di là di ogni ragionevole dubbio. Non che non ne abbia il coraggio: semplicemente non ne ha la possibilità critica.

2) Forse lo capiremo dalle motivazioni, ma per ora difficile individuare ricattati e ricattatori. Se, come parrebbe, la mafia si fosse servita di carabinieri e altri funzionari infedeli per condizionare le istituzioni, poiché queste ultime non esprimono vuote rappresentazioni metafisiche, ma sono incarnate in volti definiti, questi ultimi dovrebbero essere individuati nei rispettivi ruoli specifici. Orbene, in questa vicenda molti politici di primo piano sono entrati e usciti; Napolitano è stato ascoltato, Mancino e Mannino incriminati e assolti; altri sono stati scagionati, altri sentiti come testimoni. Il povero Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico del Quirinale e integerrimo magistrato, e morto di crepacuore. Per il resto la politica è del tutto assente: e questo palcoscenico non pub restare senza protagonisti, limitandosi a esibire qualche comparsata. Se questo vuoto non fosse colmato la sentenza resterebbe inspiegabile.

3) I giudici si sono comportati con grande serietà e rigore. Giusta o sbagliata che sia la decisione, il loro lavoro e la loro riservatezza sono stati ineccepibili. Non cosi, purtroppo, alcuni pubblici ministeri. Uno si è dato, senza successo, alla politica, in costanza di processo. Un altro ha partecipato a dibattiti preelettorali, proponendosi anche per eventuali candidature; e quel che peggio, dopo la sentenza, ha tirato in ballo un personaggio politico che al processo non aveva partecipato. Un gesto assai grave e che comunque vulnera, una volta di più, il principio della separazione dei poteri e la stessa credibilità della magistratura.

4) Guardando retrospettivamente quegli anni lontani, notiamo che quasi tutti i vertici delle Forze dell’Ordine e dei Servizi di sicurezza chiamati in causa sono stati inquisiti salvo poi, in molti casi, essere assolti con clamore. I due generali dei Ros, ora condannati, avevano un glorioso medagliere di successi contro il terrorismo e la delinquenza organizzata: cosi come lo aveva Contrada, e tanti altri generali e dirigenti di cui non vogliamo fare il nome per non rievocarne il dolore.

Ora ci domandiamo: e possibile che per anni siamo stati “tutelati” (si fa per dire) da una masnada di banditi? E in caso affermativo, dov’era la politica the li aveva piazzati in quei posti? Oppure e nella nostra giustizia che qualcosa non ha funzionato, e forse continua a non funzionare?

Carlo Nordio, Il Messaggero 23 aprile 2018

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