Muri e dazi Usa nascondono pericoli

Muri e dazi Usa nascondono pericoli

«Make America great again». Lo slogan di Trump, evocativo di un’improbabile età dell’oro, ha innegabilmente avuto la stessa forza trascinatrice per una fetta consistente dell’elettorato americano del Yes, we can di Obama. Molti pensano che, ancor più del tema dell’immigrazione, la vittoria del candidato repubblicano sia dovuta alla sua retorica anti-commercio internazionale.

La prova consisterebbe nel successo negli Stati del Midwest e dei Grandi Laghi che più hanno sofferto perdite occupazionali nel manifatturiero. Trump ha avuto percentuali del voto latino e afroamericano superiori a quelle di Romney 4 anni fa, il che dimostra che gli appartenenti alle minoranze sono più preoccupati dei posti di lavoro che del linguaggio offensivo del vincitore delle elezioni. Al di là dello sgomento di vedere un personaggio improbabile diventare l’uomo più potente del mondo, noi europei dobbiamo chiederci se il suo proposito di rendere l’America “Great” potrebbe realizzarsi a nostre spese.

Vediamo i temi ricorrenti delle sue esternazioni, pur se non va dimenticato che per ogni affermazione di Trump su un determinato argomento è possibile trovarne una contraria o diversa. La tesi di fondo è quella classica di ogni protezionista: la concorrenza sleale unfair dei Paesi a basso costo del lavoro distrugge occupazione negli Usa. Indiziati, Messico e Cina: nei confronti della superpotenza asiatica Trump ha minaccia di voler imporre dazi fino al 45 % sulle importazioni.

Verso il Messico, oltre al famoso muro anti-immigrati, vuole erigere una barriera commerciale rinegoziando il Nafta. In questo caso le preoccupazioni sono rivolte soprattutto verso il fenomeno delle imprese statunitensi che delocalizzano a sud del Rio Grande e poi riesportano negli Usa.

I dazi fanno crescere l’inflazione e i tassi di interesse ma diminuiscono la concorrenza

Un altro spauracchio agitato in campagna elettorale è stato il Tpp, il trattato di libero commercio concluso tra 12 paesi che si affacciano sul Pacifico da 3 continenti, America, Asia e Oceania, rinnegato pure dall’opportunista Clinton. Il Tpp, già firmato e solo in attesa dell’approvazione del Congresso, servirebbe in realtà a stabilire regole del commercio internazionale con paesi amici come Australia, Cile e Giappone per poi negoziare con Pechino in una posizione di forza. La contraddizione tra l’essere anti-Cina e allo stesso tempo anti-Tpp non sembra preoccupare The Donald e l’alleanza tra democratici pro-sindacati e repubblicani nazionalisti lascia poche speranze per un’approvazione parlamentare del Trattato. Rimane l’Europa e il negoziato sul Ttip.

Non è stato un grande argomento di campagna elettorale giacché non molto conosciuto al grande pubblico e, più tristemente, perché l’Europa è sempre dipinta come vecchia e statica e quindi è difficile farla diventare una minaccia alla stregua dei cinesi o montare un caso sulle ammirate Mercedes e Bmw fabbricate direttamente negli Usa. L’impressione è che le bizze europee combinate alla presidenza Trump metteranno il Ttip in un angolo. Se l’establishment repubblicano riuscirà a piazzare un po’ di suoi rappresentanti nella nuova amministrazione, potrebbe essere ripreso capitolo per capitolo con più modesti obiettivi.

Un altro aspetto importante è la volontà di Trump di abolire la legge Dodd-Frank che regolamenta banche e mercati finanziari, vista come un’inutile matassa di cavilli che soffocano l’iniziativa privata e impongono costi inutili. Poiché i servizi finanziari e i movimenti di capitale sono elementi fondamentali per i flussi di commercio internazionale e la bilancia dei pagamenti, va notato che in breve tempo l’Europa potrebbe trovarsi con le due più grandi piazze finanziarie del mondo, Londra e New York, più deregolamentate ed indipendenti dalla legislazione di Bruxelles. Se è vero che nel breve termine la City soffrirà se sarà privata del passaporto europeo per i suoi servizi, è altrettanto vero che per il Vecchio Continente la sfida congiunta dei tre centri finanziari più importanti (includendo Hong Kong) potrebbe creare guai seri.

Quali conseguenze avrà l’approccio trumpiano? Se realizzasse in pieno quel che ha detto, gli effetti sarebbero gravi: come ogni buon protezionista The Donald vive disconnesso, pensa di infliggere sanzioni e dazi agli altri senza che questi reagiscano con contromisure politiche ed economiche. Le economie sono interconnesse: le auto assemblate negli Usa dipendono dai pezzi fabbricati in Messico e le Bmw costruite in Nord America e che vengono riesportate in tutto il mondo con beneficio della bilancia commerciale Usa, sono composte da pezzi provenienti dall’intero pianeta: se aumenti il prezzo dei componenti, aumenta quello delle Bmw e non le esporti più.

Infine, i dazi fanno crescere l’inflazione e i tassi di interesse ma diminuiscono la concorrenza: una triplice ricetta non benefica. È possibile che il magnate si limiti a qualche azione dimostrativa e poi scenda a più miti consigli per gli effetti negativi provocati dalle sue chiusure. Ma si prospetta un periodo turbolento, poiché le caratteristiche che hanno fatto vincere Trump, la sua imprevedibilità e l’essere fuori dagli schemi, esercitate nelle politiche commerciali ed economiche atterriscono.

Alessandro De NicolaLa Repubblica 14 novembre 2016

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