La lezione di Adam Smith per Trump

La lezione di Adam Smith per Trump

Alla buon’ora, Donald  Trump ha annunciato la sua grande proposta di riforma fiscale.

Questi disegni di legge vanno presi «cum grano salis»: un conto è come si parte, un altro come si arriva e già si sa che non solo il Presidente americano avrà l’opposizione compatta dei democratici ma che le sue idee non collimano con quelle, ad esempio, del presidente della Camera dei Rappresentanti, Ryan.

Tuttavia, negli ultimi 40 anni le grandi rivoluzioni fiscali sono partite dall’America e vale la pena riflettere più in generale su qual è un sistema fiscale non diciamo ideale ma ragionevole, visto che anche in Italia si ragiona di riduzione e rimodulazione del carico fiscale.

Per tentarci ci serviremo di un autorevole guida, Adam Smith, il padre dell’economia politica, che nella sua «Ricchezza delle Nazioni» indica i principi cardine di un buon sistema tributario.

Il primo di tali caposaldi spiegava che: «I sudditi di ogni Stato dovrebbero contribuire a sostentare il governo, per quanto possibile, in proporzione alle proprie rispettive capacità; vale a dire in proporzione ai redditi di cui a loro volta godono sotto la protezione dello Stato».

Qui Smith prende posizione a favore dell’equivalente della flat tax per la quale ognuno e tassato in proporzione al reddito, benchè lui stesso introdusse nel libro una correzione, affermando che i salari, all’epoca a livello di sussistenza o poco più, andavano esentati, introducendo quindi una certa progressività.

Sui benefici della flat tax ci sono opinioni molto contrastanti, anche se la riforma di Trump, che va verso una riduzione del numero delle aliquote e della percentuale di ciascuna di esse per le persone fisiche, va moderatamente in quella direzione.

Per le società e gli individui che percepiscono reddito attraverso la partecipazione a società di persone o che svolgono attività imprenditoriale, invece, si andrebbe esattamente verso l’aliquota unica del 15%, ma questo, come vedremo, ci porta a riflettere sugli altri principi.

Notiamo che l’Italia ha molte imposte che violano il caposaldo del rapporto con la capacità contributiva, previsto anche dalla nostra Costituzione. L’Irap, ad esempio, che si paga non sui profitti ma sul fatturato, è insensata.

Ma veniamo al secondo, terzo e quarto principio di Smith secondo cui le tasse non possono essere arbitrarie. La data, il modo, la quantità da pagare devono essere chiare per il contribuente.

«L’incertezza della tassazione incoraggia l’insolenza e favorisce la corruzione» chiosa il filosofo scozzese. Inoltre, ogni tassa dovrebbe essere concepita in modo da costare il meno possibile oltre a quanto va nelle casse del Tesoro. Infine, ogni tributo deve essere pagato nel momento o nella maniera più comoda per il contribuente.  In breve, certezza e semplicità.

Sotto questo profilo il disegno di Trump crea un po’ di arbitrarietà, perché un reddito della stessa natura, a seconda di come viene guadagnato, da dipendente o da imprenditore o libero professionista, viene assoggettato ad aliquote ben diverse, 35% il massimo per i primi, 15% per i secondi.

Tutto do genera incertezza, artifizi e naturalmente spese per commercialisti e ispettori fiscali. Buona invece l’idea di abbassare molto l’aliquota togliendo tutta una serie di detrazioni fiscali distorsive: bisogna evitare che si investa o si consumi non per convenienza economica ma tributaria.

Anche nel Belpaese si parla spesso di ridurre abbondantemente le deduzioni e le detrazioni: curiosamente si definisce l’esercizio come spending review, mentre in realtà sarebbe un aumento delle entrate da compensare quanto-meno con un abbassamento delle aliquote.

Infine il problema dei problemi: meno tasse fanno bene al sistema economico? Per Adam Smith (come per chi scrive) certamente si, visto il ruolo limitato che egli vede per lo Stato nell’economia. Il ministro del Tesoro Mnuchin sostiene che la decurtazione si pagherà da se in quanto l’economia crescerà molto di più generando entrate fiscali aggiuntive e riducendo anche la percentuale di deficit in rapporto al Pil.

E la teoria dell’offerta popolarizzata dalla curva di Laffer che però empiricamente non ha funzionato esattamente come previsto, nel senso che in effetti l’attività economica riparte (e successo con le riduzioni di Kennedy, Reagan e Bush) ma, se non si taglia anche la spesa, le nuove entrate non sono sufficienti e aumenta il deficit.

Dopo qualche anno quest’ultimo viene riassorbito, ma nel frattempo è aumentato il debito pubblico e finché era sotto il 50% del Pil gli Usa potevano permetterselo, ora che si aggira sul 90% assai meno.

E una verità abbastanza semplice di cui anche in Italia si fa finta di non rendersi conto con i molti che invocano meno tasse e più spesa. Adam Smith non approverebbe.[spacer height=”20px”]

Alessandro de Nicola, La Stampa 28 aprile 2017

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