Con lo spettro del fallimento Conti allo sbando, ecco perché Roma rischia il default

Con lo spettro del fallimento Conti allo sbando, ecco perché Roma rischia il default

Ieri il neo assessore al Bilancio, Andrea Mazzillo, ha escluso l’ipotesi di un default per la Capitale, ma la situazione è più che emergenziale. I problemi più rilevanti sono quattro. C’è un debito finanziario di 1,2 miliardi, gestibile a seconda dei flussi di entrate proprie del Campidoglio. C’è il nodo della rata annuale di ammortamento del debito da 13 miliardi circa, in gestione separata commissariale. C’è inoltre uno squilibrio patrimoniale di oltre un miliardo del Gruppo Roma Capitale, creato dal saldo netto tra crediti e debiti delle società partecipate comunali che al Gruppo fanno riferimento, e che può rapidamente chiamare all’esigenza di ricapitalizzazioni. E infine c’è un quarto problema: la continua emersione dai conti ereditati di debiti fuori bilancio, residui attivi e passivi.

Facciamo un passo indietro. L’assestamento di bilancio 2016 votato a fine luglio in Campidoglio e impostato dall’allora assessore Minenna è stato un puro atto dovuto. Per rispettare la scadenza di legge, senza avere il tempo né l’intenzione di compiere alcuna scelta strutturale. La voce più rilevante era lo stanziamento di 90 milioni previsti per il salario accessorio nel 2017 e 2018, una delle gravi questioni createsi in passato tenendo gli occhi chiusi sui finti salari di produttività spalmati per tutti fino, in alcun i casi, a oltre il 50% della retribuzione ordinaria. Altre voci apparivano in singolare e inesplicato contrasto con la situazione certificata dall’ex commissario Tronca solo 60 giorni prima, a fine maggio.

Secondo il rendiconto finale della gestione Tronca in cassa allora risultavano solo 13 milioni di euro, mentre a luglio secondo il documento Minenna erano saliti a ben 800, computando però per cassa poste non traducibili in liquidità immediata. Qualche giorno fa il sindaco Raggi ha disposto ad alunni disabili e municipi l’assegnazione di 9 milioni su 11 “trovati”, ha detto, nelle disponibilità di tesoreria. Lodevole, ma il problema da affrontare è purtroppo di tutt’altro ordine di grandezza. Il Campidoglio non potrà impostare di qui a 10 settimane il preventivo 2017 senza una ricognizione a 360 gradi dei diversi fattori che concorrono al suo squilibrio strutturale. E poiché per farlo occorre tempo, con tutto il rispetto i 100 giorni sin qui persi sono un cattivo inizio.

Per avere un’idea di quanto temibilmente ballerine siano le scoperte speleologiche, per così dire, che continuano ad avvenire scavando nei conti di Roma, basti pensare che secondo la Ragioneria capitolina nel primo semestre 2106 già erano emersi 46 milioni non computati nel preventivo 2016, tra nuova spesa corrente e debiti fuori bilancio. A seguito dell’assestamento votato dall’attuale giunta a fine luglio l’Oref, cioè l’Organo di Revisione Economico-Finanziaria del Campidoglio, ha innalzato vertiginosamente la stima fino a 234 milioni di debiti fuori bilancio.

La nuova giunta partirà probabilmente dall’esame di sostenibilità della rata annuale di ammortamento dovuta a Cdp per l’anticipazione di cassa del debito di 13 miliardi, affidato alla gestione separata commissariale guidata da Silvia Scozzese. Che ha avvisato per tempo, a fine 2015, che dal 2017 i flussi prevedibili di cassa generati non saranno tali da sostenerne più la gestione ordinaria e il rientro. Perché, appunto, il bilancio del Campidoglio resta strutturalmente squilibrato.
D’altro canto, i romani sono già al massimo delle sovra aliquote Irpef e Irap sommando Comune e Regione: pagano 750 euro l’anno oltre la media nazionale.

Non pesa solo la rata annuale di ammortamento del debito. Come ha puntualmente dovuto ammettere ieri l’assessore Mazzillo, è la macchina comunale a essere divenuta incapace di entrate proprie in percentuali accettabili. Perde oltre 100 milioni di affitti l’anno sul suo patrimonio immobiliare, sconta 7,1 miliardi di crediti non incassati tra entrate tributarie, multe, tariffe per servizi e canoni. Non riesce a processare l’anno più del 10% degli arretrati Imu. E dal 2008 si sono aggiunti 2,3 miliardi di spese correnti non liquidate ai fornitori, che il commissario Tronca ha iniziato a ridurre. Da asili, mense, affitti e mercati, il Campidoglio riesce a incassare solo 900 milioni l’anno aggiuntivi ai trasferimenti centrali e alle tasse: rispetto ai 4 miliardi di euro di Milano, che ha meno della metà degli abitanti della Capitale.

Intervenire sul conto economico ordinario postula avere idee estremamente chiare sul riordino del perimetro e dell’organizzazione dell’intera macchina capitolina. Purtroppo a tutti i livelli, dagli assessorati centrali ai Municipi, c’è un problema di gestione e controllo dei dati, di regole, e di risorse umane. Se ci fermiamo alle maggiori stazioni appaltanti gare per lavori e forniture, nel perimetro capitolino e delle sue controllate maggiori siamo a quota 150, che sfiora addirittura le 300 unità se comprendiamo anche quelle per modesti importi. Occorre integrare i sistemi informatici oggi non interfacciati e usati da ogni Dipartimento e Municipio per gestire appalti, gare e affidamenti, che compartimentano e ostacolano ogni processo centralizzato di controllo. E superare la prassi invalsa di attribuire ogni singolo affidamento alla valutazione del dirigente responsabile del procedimento, senza omogeneità di criteri. E bisogna cessare di aggirare gli obblighi di gara attraverso il frazionamento degli importi.

Nel 2015 Milano ha realizzato alienazioni di beni patrimoniali del Comune per 950 milioni, Roma per 33. In compenso, il Campidoglio oggi gestisce anche aziende agricole come Castel di Guido e Tenuta del Cavaliere, volte alla produzione di carni, salumi e formaggi. Naturalmente, il conto di queste aziende è in perdita. Malgrado le 72 mila unità immobiliari destinate a canone sociale nel Comune di Roma (di diversa proprietà pubblica, non solo comunale), il Campidoglio spende oltre 20 milioni di canoni sociali in proprio.

Quanto al miliardo di squilibrio delle partecipate, non è purtroppo nemmeno esso una sorpresa. Oltretutto il più dei contratti di servizio delle società scade a fine anno, e andranno riscritti con criteri di efficienza del tutto diversi. Di sicuro, il Campidoglio oggi non ha la disponibilità finanziaria adeguata per gli investimenti che sono necessari in Atac e Ama. E comunque una stima almeno approssimativa delle disponibilità non si può credibilmente fare, prima di aver definito come s’intende aggredire gli squilibri strutturali che gravano sul conto economico.

Atac, che in 5 anni ha ottenuto sussidi pubblici per 4,3 miliardi riuscendo a sommare perdite per 1,1 miliardi, ha 12 mila dipendenti con costo medio di 46mila euro, ai vertici di settore. Per l’Ama siamo ancora al punto in cui sono le cronache giudiziarie a dettare l’agenda, mentre senza una precisa scelta industriale il trattamento dei rifiuti romani continuerà a essere un affare per altre parti d’Italia.

Ci fermiamo qui. Non c’è alcun pregiudizio verso la giunta Raggi. Il duro compito che l’attende era chiaro da prima delle elezioni. La condizione di Roma impone scelte molto impegnative, che richiedono grande risoluzione, raffinata competenza, visione e padronanza di un’infinità di dettagli. E 100 giorni dicono che il tempo per addossare le colpe agli altri è finito.

 

Oscar Giannino, Il Messaggero 7 ottobre 2016

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